Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXVI
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CAPITOLO XXXVI.
- Prima rappresentazione del Belisario. — Suo buon successo. — Rappresentazione della Pupilla. — Quella di Rosmonda. — Quella della Birba. — Termine dei teatri.
Finalmente il dì 24 novembre 1734 andò per la prima volta in scena il mio Belisario. Era questo il mio primo passo, e non poteva riuscire nè più bello, nè più soddisfacente per me. La rappresentazione fu ascoltata con un silenzio straordinario, e quasi ignoto negli spettacoli d’Italia. Il pubblico assuefatto allo strepito, rompeva il freno fra atto e atto; e con gridi di gioia, battimani, e segni ripetuti a vicenda, ora dalla platea, ora dai palchetti, si profondevano all’autore e agli attori gli applausi più strepitosi. Alla fine della rappresentazione tutti codesti impeti di soddisfazione, per vero dire poco comune, raddoppiavano in maniera che gli attori stessi n’erano commossi. Gli uni piangevano, gli altri ridevano, ed era la gioia medesima che produceva questi effetti diversi.
In Italia non vi è l’uso di chiamar l’autore per vederlo, ed applaudirlo sul palco scenico. Allorquando bensì si presentò il primo amoroso per far l’invito, tutti gli spettatori gridarono ad una voce: Questa, questa, questa; onde fu calato il sipario. Si espose il giorno dopo la stessa rappresentazione, si continuò a recitarla fino al 14 di dicembre, e si chiuse con essa il divertimento teatrale dell’autunno. Questo principio fu felicissimo per me, tanto più che la composizione non era di quel pregio in cui si teneva, ed io medesimo ne fo adesso sì poco conto, che non comparirà nella raccolta delle mie opere. In Venezia è così ben conosciuta e così ben coltivata la buona letteratura quanto in qualunque altro luogo; ma gl’intendenti non poterono astenersi dall’applaudire quest’opera, benchè ne rilevassero le imperfezioni. Vedendo essi la superiorità della mia composizione sulle farse, sulle solite puerilità dei comici, presagivano da questo primo saggio un seguito capace di svegliare emulazione e spianare la via alla riforma del teatro italiano. Il principal difetto della mia composizione era la presenza di Belisario con gli occhi cavati e sanguinosi; all’infuori di questo, essa, intitolata da me tragicommedia, non era priva di grazie, e dilettava lo spettatore in modo evidente e naturale. I miei eroi eran uomini e non semidei, le loro passioni avevano quella parte di nobiltà ch’era conveniente al loro grado; ma facevano comparire l’umanità, quale appunto la conosciamo, non portandone i vizi e le virtù ad un eccesso immaginario.
Il mio stile non era elegante, e la mia versificazione non è mai giunta al sublime; ecco appunto ciò di che abbisognava per ricondurre una volta alla ragione un pubblico assuefatto all’iperbole, alle antitesi, ed al ridicolo del gigantesco e dei romanzi. Alla sesta rappresentazione del mio Belisario, credè Imer di potervi unire la Pupilla; questa composizioncella fu benissimo accolta dal pubblico. Imer era d’opinione che l’intermezzo sostenesse la tragicommedia, laddove questa appunto sosteneva l’intermezzo. In qualunque modo, vi guadagnai molto per parte mia, poichè il pubblico vedendo che io mi presentava in tutti due i generi in una maniera affatto nuova, mi fece degno della stima generale de’ miei compatrioti, ed io ebbi incoraggiamenti i più lusinghieri e i più chiari. In quest’occorrenza appunto imparai a conoscere sua eccellenza Niccolò Balbi, patrizio e senator veneziano, la cui sincera e costante protezione mi fece in ogni tempo il più grand’onore, ed i cui consigli, credito ed aderenze furono sempre del maggior mio vantaggio.
Li 17 gennaio si rappresentò per la prima volta la mia Rosmonda, Essa non cadde; ma dopo il Belisario, non potevo sperare un successo così splendido; fu ripetuta in quattro rappresentazioni molto passabili, ed alla quinta Imer la spalleggiò con un nuovo intermezzo. La Birba piacque sommamente: questa bagattella piena di arguzie, e molto bizzarra, sostenne Rosmonda per quattr’altre recite; bisognò per altro tornare al Belisario. La ripetizione di essa ebbe il medesimo successo della prima volta; onde il Belisario e la Birba furono esposte unitamente fino al martedì grasso, e chiusero il carnevale: con questo si diè termine all’anno comico.
I teatri non si riaprono in Venezia che al principio del mese di ottobre; vi è però ne’ quindici giorni della fiera dell’Ascensione una grand’opera, e qualche volta due, che hanno venti sole rappresentazioni. Il nobile Grimani, proprietario di San Samuele, dava in questa stagione un’opera per suo conto; e siccome mi aveva promesso di occuparmi in questo spettacolo, mi mantenne la parola. Non si doveva esporre in quell’anno un dramma nuovo; si era bensì scelta la Griselda, opera d’Apostolo Zeno e del Pariati, che lavoravano insieme, prima che lo Zeno partisse per Vienna al servizio dell’imperatore: ed il maestro che doveva mettere in musica era l’abate Vivaldi che si chiamava per la sua capigliatura il prete rosso. Si conosceva più per questo soprannome che per il suo vero casato. Questo ecclesiastico, eccellente sonator di violino e mediocre compositore, aveva allevato ed addestrato al canto la signorina Giraud, giovine cantatrice, nata in Venezia, e figlia d’un parrucchiere francese. Non era bella, ma aveva grazia, un gentil personale, occhi belli, bei capelli, una graziosa bocca, poca voce, ma molta azione. Era appunto quella che doveva rappresentare la parte di Griselda. Il signor Grimani adunque mi mandò a casa del maestro per fare a quest’opera le necessarie mutazioni, tanto per scorciare il dramma, quanto per variare la condizione dell’arte ad arbitrio degli attori e del compositore. Andai pertanto dall’abate Vivaldi, e mi feci annunziare per parte di sua eccellenza Grimani: trovai quell’uomo circondato di musica, e col breviario in mano. S’alza, si fa un segno di croce in tutta la sua lunghezza e larghezza, mette da parte il breviario, e mi fa il solito complimento: — Qual’è il motivo che mi procura il piacere di vedervi, o signore? — Sua eccellenza Grimani mi ha incaricato delle mutazioni che voi credete necessarie nell’opera per la prossima fiera, onde io vengo appunto ad intendere quali siano le vostre intenzioni. — Ah! ah! Voi dunque siete incaricato delle mutazioni dell’opera della Griselda? Non è più addetto agli spettacoli del signor Grimani il signor Lalli? — Il signor Lalli che è molto avanzato in età, goderà sempre il profitto delle lettere dedicatorie e della vendita dei libri, cose delle quali io non m’incarico. Io avrò il piacere di occuparmi in un esercizio che deve divertirmi, e avrò l’onore di cominciare sotto gli ordini del signor Vivaldi. — L’abate riprende il suo breviario, si fa un altro segno di croce, e non risponde. — Signore, gli dissi allora, non vorrei distrarvi da un’occupazione così religiosa, tornerò in altro momento. — Io so molto bene, mio caro signor Goldoni, che voi avete genio per la poesia, ho veduto il vostro Belisario, e mi è molto piaciuto, ma qui la cosa differisce assai; si può fare una tragedia, un poema epico, quello che volete, e non saper poi fare una quartina per la musica. — Mi fareste la grazia di mostrarmi il vostro dramma? — Sicuro, sicuro; vi voglio compiacere; dove diavolo si è cacciata questa Griselda? Era pur qui... Deus in adiutorium meum intende... Domine... Domine... Domine... Or ora era qui. Domine ad adiuvandum... Ah! eccola. Esaminate un poco questa scena fra Gualtiero e Griselda: è veramente una scena che va al cuore. L’autore vi ha posto in ultimo un’aria patetica; ma la signorina Giraud non ama il canto lugubre: ella desidererebbe un pezzo di espressione e di moto, un’aria che esprima la passione in differenti guise, con discorsi, per esempio, interrotti, con sospiri vibrati, con azione, con moto; non so se mi intendiate. — Sì signore, capisco a maraviglia; e poi ho avuto l’onore di sentire la signorina Giraud altre volte, so che la sua voce non è grandissima... — Come, signore! voi insultate la mia scolara? Ella è buona a tutto, ella canta tutto. — Sì, signore, avete ragione, datemi dunque il libretto e lasciatemi fare. — Non posso disfarmene: ne ho troppo di bisogno, e me ne fanno troppa premura. — Ebbene, se voi siete sollecitato, prestatemelo almeno per un momento, io vi soddisfarò subito nell’atto. — Nell’atto? — Sì, signore, nell’atto. —
Burlandosi l’abate di me, mi presenta il dramma, e mi dà carta e calamaio; ripiglia il suo breviario, e passeggiando torna a recitare i suoi salmi ed i suoi inni. Rileggo la scena di cui avevo già tutta la notizia, fo la recapitolazione di ciò che il maestro desiderava, e in meno di un quarto d’ora stendo sul mio foglio un’aria di otto versi, divisa in due parti; chiamo l’ecclesiastico e gli fo vedere la composizione. Vivaldi legge, aggrinza la fronte, rilegge da capo, e prorompe in gridi di gioia: getta il suo breviario per terra, e chiama la signorina Giraud. Ella viene: Ah! le disse, eccovi un uomo raro, un poeta eccellente: leggete quest’aria: è stata fatta da questo signore senza muoversi di qui in meno di un quarto d’ora; indi a me rivolto: Ah! signore, vi domando perdono. — Mi abbraccia, e protesta, che non avrà mai altro poeta che me. Mi affidò il dramma, mi ordinò altre variazioni, e sempre di me contento, l’opera riuscì a maraviglia.
Eccomi dunque iniziato nell’opere, nella commedia, e negl’intermezzi, che furono i precursori dell’opere comiche italiane.