Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - XXXIV | Parte prima - XXXVI | ► |
CAPITOLO XXXV.
- Unione degl’intermezzi colla commedia. — Opera comica ignota affatto in Lombardia e nello Stato veneto. — La Pupilla, intermezzo. — Regalo di Casali da me bene impiegato. — Mio arrivo a Venezia. — Colpo d’occhio di questa città in tempo di notte. — Mio accesso al nobile Grimani. — Sue promesse, mie speranze.
Imer, senza avere avuto una ben regolata educazione, aveva nonostante ingegno e cognizioni; era appassionato per la commedia, e naturalmente eloquente avrebbe sostenuto a maraviglia le parti di amoroso all’improvviso secondo l’uso d’Italia, se il suo personale e la sua figura avessero corrisposto al suo ingegno. Corto di corpo, grosso, senza collo, con piccoli occhi, ed un piccolo naso schiacciato, si rendeva ridicolo in tutte le operazioni serie; molto più che non erano allora di moda i personaggi caricati. Avendo voce, immaginò d’introdurre nella commedia gl’intermezzi in musica che per lungo tempo furono uniti all’opera seria, e poi soppressi per dar luogo ai balli. L’opera comica ebbe principio in Napoli ed in Roma, ma non se ne avea cognizione in Lombardia e nello Stato Veneto, di maniera che l’idea d’Imer ebbe effetto. La novità fece molto piacere, e produsse ai comici molto guadagno.
Aveva nella compagnia per gl’intermezzi due attrici: una vedova bellissima e di somma abilità chiamata Zanetta Casanuova, che recitava le parti di giovine amorosa nella commedia; ed altra donna non comica, ma che aveva una voce gradevolissima. Era questa la signora Agnese Amurat, quell’istessa cantatrice da me impiegata nella serenata di Venezia. Queste due donne non conoscevano una nota di musica, come pure Imer, ma tutti e tre avevan gusto, orecchio delicato, esecuzione perfetta; in somma il pubblico n’era contento. Il primo intermezzo col quale si diede principio, fu La Cantatrice, operetta da me fatta a Feltre per un teatrino di conversazione, contribuendo in tal modo ai vantaggi della compagnia di Venezia senza saperlo, e senza esser conosciuto. Dovevo adunque goder molto credito nell’animo del direttore, a cui Casali mi aveva già manifestato per autore della Cantatrice, ed ecco la vera ragione delle tante garbatezze, di cui egli mi ricolmò. Per il solito non si dà nulla per nulla, nè sarebbe stato bastante il mio Belisario, se non avessi prima dato anche qualche saggio nella poesia drammatica. Imer che veramente avea buon occhio, prevedeva che il Belisario avrebbe fatto fortuna per tutto, e benchè non ne provasse rammarico, avrebbe però voluto che il suo nuovo impiego e la sua persona avessero avuto qualche parte nei buoni successi che egli si aspettava. Mi pregò adunque di comporre un intermezzo a tre voci, e di terminarlo il più presto che fosse possibile per aver tempo di farlo mettere in musica.
Lo feci pertanto in tre atti, e lo intitolai La Pupilla, prendendone l’argomento dalla vita privata del direttore. Mi ero accorto, che aveva una decisa inclinazione per la vedova sua compagna, e vedevo che ne era geloso; mi presi adunque giuoco di lui medesimo. Egli se ne avvide subito, ma l’intermezzo gli parve così ben fatto, e la critica sì conveniente e delicata, che mi perdonò volentieri questa burla; anzi mi ringraziò, mi applaudì, e lo spedì subito a Venezia al maestro di musica già avvertito. Frattanto era stato copiato il Belisario, ed erano distribuite le parti. Alcuni giorni dopo se ne fece la prima prova con lo scritto alla mano, e la composizione ebbe maggiore effetto nella seconda lettura, di quello che aveva avuto nella prima. Il Casali sempre più di me contento, dopo avermi assicurato, che il direttore ed il proprietario del teatro si sarebbero dati pensiero di ricompensarmi, mi chiese in grazia di aver la compiacenza di ricever da lui privatamente un contrassegno di gratitudine, presentandomi sei zecchini. Mi tornò subito in quell’istante in memoria lo Scacciati: ringrazio il Casali, prendo i sei zecchini da una mano e li spedisco allo Scacciati con l’altra. Ecco il mio costume. Ho procurato sempre di evitar le bassezze, nè son mai stato orgoglioso; ho soccorso, quando ho potuto, tutti quelli che hanno avuto bisogno di me, ed ho ricevuto senza difficoltà, e dimandato anche, senza arrossire, i soccorsi che mi erano necessari. Restai tranquillamente a Verona sino al fine di settembre. In seguito partii per Venezia con Imer nel suo calesse di posta, e vi arrivammo l’istesso giorno a ott’ore della sera. Mi fa smontare in sua casa, mi mostra la camera destinatami, e mi presenta alla moglie ed alle figlie; siccome avevo gran voglia di andare a vedere la mia zia materna, li pregai di dispensarmi di cenar seco loro. Ero ansiosissimo di aver notizia della signora St*** e di sua figlia, come pure di sapere se avevano ancora pretensioni sopra di me. Mi assicurò mia zia, che potevo viver quieto sopra questo punto, e che le due dame, antiche quanto il tempo, avendo inteso aver io preso qualche impegno con i comici, mi reputavano indegno di accostarmi a loro, nè avean per me che sdegno e disprezzo. Tanto meglio, allora io dissi; tanto meglio, questo è un vantaggio di più, di cui sarò debitore al mio ingegno. Sto con i comici, come un artista appunto nella sua bottega. Essi son gente di garbo, ed assai più stimabili degli schiavi dell’orgoglio e dell’ambizione. Parlerò in seguito dei miei affari di famiglia. Mia madre, che si trovava ancora in Modena, stava bene, ed i miei debiti erano quasi pagati per intero. Cenai con la mia zia, e con i miei parenti. Dopo essermi congedato da loro per andare a casa del mio ospite, presi la strada più lunga, e feci il giro del Ponte di Rialto, e della piazza di San Marco, godendo del grazioso spettacolo di questa città ammirabile anche più di notte che di giorno. Non avevo ancor veduto Parigi, avevo bensì veduto di fresco parecchie città, ove la sera si passeggia al buio. Posso adunque dire che i fanali di Venezia formano una decorazione utile e piacevole, tanto più che i privati non ne sono aggravati, poichè un’estrazione di più all’anno del giuoco del Lotto è destinata per farne la spesa. Indipendentemente da questa illuminazione generale, vi è quella delle botteghe, che stanno aperte in ogni tempo fino all’ore dieci della sera, e una gran parte di esse non si chiude che a mezzanotte, e parecchie altre non si chiudon punto. Si trovano in Venezia a mezzanotte, come sul mezzogiorno, i commestibili esposti alla vendita, tutte le osterie aperte, e cene belle e preparate negli alberghi, e nei quartieri da dozzina; poichè non son troppo comuni in Venezia i desinari e le cene di società; ma le conversazioni e i ritrovi di lira e soldo mettono insieme compagnie di maggior brio e libertà.
Nell’estate la piazza di San Marco, e i suoi contorni sono frequentati la notte come il giorno; ed i caffè sono sempre pieni di persone allegre, e di uomini e donne di ogni sorte. Si canta per le piazze, per le strade, nei canali; cantano i mercanti smerciando le loro mercanzie, cantano i lavoranti nell’escire dai loro lavori, canta il gondoliere stando ad aspettare il suo padrone. Il carattere della nazione è l’allegria; e quello della lingua veneziana, la lepidezza. Nel piacevole incanto di riveder la mia patria, che mi pareva sempre più straordinaria e più dilettevole, tornai al mio nuovo quartiere, ove Imer mi aspettava; mi annunziò che sarebbe andato il giorno dopo dal signor Grimani, proprietario del teatro, che mi avrebbe condotto seco, e presentato a sua eccellenza, quando non avessi avuto altri impegni. Siccome ero libero, accettai la proposizione, e andammo insieme. Il signor Grimani era l’uomo più garbato del mondo; non aveva quell’incomoda alterezza, che fa torto ai grandi, mentre umilia gl’inferiori. Illustre per nascita, stimato per le sue doti intellettuali, avea solo bisogno d’essere amato, e la sua dolcezza gli cattivava tutti gli animi. Mi accolse pertanto con bontà, mi persuase a lavorare per la Compagnia che tratteneva a suo servizio; e per darmi maggiore coraggio mi fece sperare, che essendo egli proprietario anche del teatro di San Giovan Crisostomo e impresario della grand’Opera, avrebbe procurato di impiegarmi e interessarmi in questo spettacolo. Contentissimo di sua eccellenza Grimani, non meno che dei buoni uffizi che mi rendeva allora Imer con lui, ad altro io non pensai che a meritare i suffragi del pubblico. La prima rappresentazione del Belisario era stata fissata per santa Caterina, tempo in cui terminano le vacanze della curia, ed in cui tornan tutti dalla campagna; si facevano frattanto le prove, ora della mia tragicommedia, ora del mio intermezzo; e siccome le mie occupazioni non erano di gran rilievo, preparai qualche cosa di nuovo per il carnovale.
Intrapresi la composizione di una tragedia intitolata Rosimonda, e di un altro intermezzo intitolato la Birba. Per la rappresentazione seria, era destinata la Rosimonda del Muti, cattivo romanzo del secolo passato che mi aveva suggerito l’argomento ed avevo modellata l’altra sull’idea dei saltimbanchi della piazza di San Marco, dei quali avevo già bene studiato il linguaggio, le ridicolezze, le caricature, e le furberie. I tratti comici, da me usati negl’intermezzi, erano semi che io gettava nel mio campo per raccoglierne un giorno frutti maturi e piacevoli.