Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXIV
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CAPITOLO XXIV.
- Felice condizione di un buon avvocato. — Tratto singolare di un avvocato veneziano. — Almanacco di mia invenzione. — Amalasunta, tragedia lirica da me composta.
Ero già avvocato, già ero stato presentato alla curia, e non si trattava che di aver clienti: mi portavo ogni giorno al palazzo ad udire le arringhe dei maestri dell’arte; e guardavo per ogni dove se il mio aspetto risvegliava effetti simpatici in qualche litigante, che avesse avuta volontà di produrmi almeno in una causa di appello. Un avvocato novizio non può figurare e farsi onore nei tribunali di prima istanza, ma solo nelle Corti superiori può far spiccare la scienza, la facondia, la voce, la grazia, quattro mezzi in egual modo necessari perchè in Venezia un avvocato sia posto nel primo grado. Il mio zio Indric mi prometteva molto; incessantemente mi davano a sperare gli amici; ma frattanto bisognava passare tutto il dopo pranzo, e una buona parte della sera, nello studio ad oggetto di non perdere l’istante fortunato che poteva giungere. Uno dei guadagni più grandi dell’avvocato veneziano sono i pareri: a un avvocato di prima classe un parere di soli tre quarti d’ora si paga due o tre zecchini, e prima di comparire avanti al giudice vi sono talvolta in una causa di conseguenza e complicata dodici, quindici, e venti pareri da dare. Se l’avvocato ha commissione di scrivere e di formare una petizione o una risposta, nel corso degli atti della lite, gli si consegnano sul fatto quattro, sei e dodici zecchini. Le difese non si fanno in iscritto a Venezia. L’avvocato perora a viva voce, e gli vien pagata l’arringa a proporzione dell’importanza della causa e del merito del difensore. Tuttavia questo ascende a moltissimo. Nella mia solitudine e nei momenti di noia, mi divertivo a far tra me stesso il calcolo, che un avvocato, che abbia credito e fortuna, può guadagnare, senza darsi gran briga, quaranta mila lire all’anno: e questo è molto per un paese, ove il vivere è la metà meno caro che a Parigi. — Mi viene ora a memoria un tratto singolare d’uno dei più famosi avvocati del mio tempo. Questi era un uomo che aveva guadagnato molto, e che si trovava in uno stato comodissimo a Venezia; aveva però fatta fabbricare una bella ed elegante abitazione in una città di terraferma, e quivi spiegava tutto il suo fasto, tutta la sua magnificenza. Un giorno che uno dei suoi clienti andò a trovarlo a casa per consultarlo, e dirgli che doveva partire per Milano, l’avvocato lo pregò di fargli costruire una carrozza e di mandargliela alla sua casa di V***. Il cliente accettò con piacere l’incombenza, fece eseguire la commissione sotto i suoi occhi, ed il legno riuscì della maggior bellezza. Lo spedì secondo l’intelligenza, e ne diè parte al committente senza parlargli di prezzo. Torna a Venezia il cliente, e si porta col suo procuratore a consultar l’avvocato sullo stato dei propri affari. Questi a mezzo del colloquio, ricordandosi della carrozza, che aveva veduta, e di cui era rimasto pienamente contento, gliene chiede il conto. Il cliente ricusa darlo, anzi prega il suo difensore di compiacersi di accettarla come una testimonianza di amicizia e di considerazione. L’avvocato lo ringrazia, e figura d’insistere sul pagamento; ma i tre quarti d’ora passavano, ed essendovi nell’anticamera altri litiganti che aspettavano coll’orologio alla mano, fu ripreso subito il consulto. Finito il tempo, ciascuno si alza, e l’avvocato accompagna alla porta il suo cliente, come è costume; il procuratore gli presenta tre zecchini, li prende e rientra nello studio. Parve singolare al procuratore questo atto, nè potè dispensarsi dal parteciparlo ai suoi amici: questi lo dissero ad altri, e qualcheduno di essi ne rese inteso l’avvocato: ecco la sua risposta e la sua giustificazione. Il signor conte A*** mi ha fatto un dono; io l’ho ringraziato, ed eccoci pari; gli ho dato un parere, mi ha pagato, e siamo egualmente pari: mi rido degli sciocchi e tiro avanti. A dire il vero, aveva ragione quest’uomo di ridersi del mondo: la sua tavoletta era sempre piena di nomi di clienti, ed i suoi quarti d’ora erano sempre impiegati. Non veniva altro a casa mia che qualche curioso per investigarmi, o qualche pericoloso cavillatore; nulladimeno li ascoltava pazientemente, dava loro i miei pareri, non stavo coll’orologio alla mano, li tenevo quanto volevano, li accompagnavo fino alla porta; ma nessuno dava. Questa è la sorte dei principianti; v’abbisognano tre o quattr’anni prima di giungere a farsi un nome, e a guadagnare qualche danaro. Sono per altro di ferma opinione, che se avessi continuato la mia professione alla curia, avrei fatto il mio viaggio molto più presto di parecchi altri miei confratelli; infatti in sei mesi di tempo avevo difeso una causa, e l’avevo vinta. Ma la mia costellazione mi minacciava già un nuovo cangiamento, che non mi fu possibile evitare; e riserbo al capitolo seguente l’origine e le conseguenze di un rovescio più grande ancora di quello che avevo provato in collegio a Pavia.
Frattanto passavo il tempo nel mio studio, solo solo o male accompagnato, facendo almanacchi. Fare almanacchi, tanto in italiano come in francese, significa occuparsi in oggetti inutili ed immaginari; questa volta però vi era differenza, poichè realmente mi riuscì di fare un almanacco, che fu stampato, che si gustò molto, e che ottenne sommo applauso. Lo intitolai: L’esperienza del passato, Astrologo dell’avvenire. Almanacco critico per l’anno 1732. Vi era un discorso generale sull’anno, ed altri quattro sopra le quattro stagioni in terzine intrecciate alla maniera di Dante, contenenti alcune critiche su i costumi del secolo, e ciascun giorno dell’anno era accompagnato da un prognostico, che racchiudeva sempre una lepidezza, una critica, o un’arguta espressione. Non starò qui a render conto di una ragazzata, che non ne merita la pena; trascriverò soltanto il distico del giorno di Pasqua, giacchè questa faceta espressione, ch’era forse una delle meno argute, fece un effetto mirabile, a motivo di essersi verificato il prognostico, e mi procurò sommi favori e molto gradimento. Eccovi in versi italiani la predizione:
In sì gran giorno una gentil contessa
Al parrucchier sacrifica la Messa.
Questa piccola operetta, qualunque fosse, mi divertì molto; poichè in tal tempo non vi erano in Venezia spettacoli, ed oltre a ciò le mie diverse occupazioni mi avevano impedito di pensarvi. Le critiche e le facezie del mio almanacco erano veramente del genere comico, ed ogni prognostico avrebbe potuto somministrare il soggetto di una commedia. Mi si risvegliò allora la brama di riprendere l’antica mia idea, e sbozzai qualche rappresentazione; ma riflettendo, che il genere comico non conveniva del tutto alla gravità della toga, credei più analoga al mio stato la maestà tragica, divenendo perciò infedele a Talia per seguire i vessilli di Melpomene.
Siccome nulla voglio nascondere al mio lettore, è necessario che io gli riveli un segreto. I miei affari andavano male, e mi trovavo dissestato (si vedrà speditamente il come ed il perchè): lo studio non mi fruttava nulla, ed avevo bisogno di trar profitto dal mio tempo. In Italia i guadagni della Commedia sono dell’ultima mediocrità per l’autore; non vi era che l’Opera, che potesse farmi avere cento zecchini in un tratto. Con questa mira composi una tragedia lirica intitolata Amalasunta. Credei di far bene, e trovai persone che mi parvero contente della medesima: è bensì vero, che non le avevo scelte tra gl’intendenti. Parlerò dunque di questa tragedia in musica in altra occasione. Ecco qua mio zio Indric, che viene a propormi una causa: bisogna sentirlo.