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capitolo xxvi 73


mi vide entrare: venne al mio incontro, mi fece passare nella sua camera, volle che sedessi accanto a lei, e con viso serio ed appassionato mi disse: — Voi ci avete regalate di un divertimento bellissimo; siamo però più femmine in questa casa: a chi mai ha potuto esser diretta questa festa galante? Io non so se tocchi a me a ringraziarvi. — Signorina, le risposi, non son io l’autore della serenata... M’interrompe allora con aria brusca, e quasi minaccevole: — No, non vi nascondete, ella disse; vi sforzate invano; ditemi solamente se questo divertimento è stato immaginato per me, o per altri, e vi avverto, che questa dichiarazione può divenir seria, che deve esser decisiva, e non vi dirò altro. — Se fossi stato libero, non so che cosa avrei risposto, ma ero nei lacci, onde non avevo che una sola risposta da dare. — Signorina, io le dissi, nella supposizione che io fossi l’autore della serenata, non avrei mai ardito di indirizzarla a voi. — Perchè? ella riprese. — Perchè, risposi, le vostre mire sono troppo superiori alle mie, nè vi sono che i signori grandi, che possano meritare la vostra stima... — Basta così, ella soggiunse alzandosi; ho inteso tutto: andate. Signore, voi ve ne pentirete. — Ella aveva ragione; me ne sono infatti molto pentito. Ecco dichiarata la guerra. La signorina Mar***, offesa di vedersi soppiantata dalla sua nipote, e temendo di vederla maritata prima di sè, rivolse le mire a un’altra parte. Stava dirimpetto le sue finestre una famiglia rispettabile, non titolata, ma bensì in parentela con alcune famiglie patrizie, il figlio maggiore della quale aveva fatto la corte alla signorina Mar***, ed era stato rigettato. Ella procurò di far nuova lega col giovine, che non ricusò; gli comprò una carica onorevolissima nel palazzo, ed in sei giorni di tempo tutto fu accordato, e fu eseguito il matrimonio. Il signor Z***, che era il nuovo sposo, aveva una sorella, che doveva maritarsi nel medesimo mese a un gentiluomo di terraferma, e questi erano due matrimonii di persone molto comode; la mia bella ed io dovevamo fare il terzo, e quantunque mendichi come eravamo in sostanza, pur bisognava figurar di esser ricchi, e rovinarci. Ecco ciò che mi ha dissestato, ecco ciò che mi ha ridotto all’estreme angosce. Come fare a sbrogliarsene? lo vedrete nel capitolo seguente.

CAPITOLO XXVI.

Seguito del capitolo precedente.

Mia madre nulla sapeva di ciò che seguiva in una casa ove ella non andava troppo spesso, ma la signorina Mar*** si valse maliziosamente delle cerimonie d’uso per informarla: le mandò un biglietto di matrimonio. Mia madre ne fu sommamente maravigliata, me ne tenne proposito, ed io fui obbligato a confessar tutto; procurando però di render meno reprensibile la sciocchezza da me fatta, con dire d’aver fatte valer per buone promesse, ch’erano sottoposte a cauzione, e finalmente aggiungendo, che nella mia età una donna di quarant’anni non mi conveniva. Quest’ultima ragione acquietò mia madre più che le altre. Mi domandò se il tempo del mio matrimonio era stato fissato, ed io le dissi di sì, come pure che vi erano ancora tre buoni mesi di tempo. In Venezia per maritarsi in buona regola, e con tutte le follie