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50 parte prima


titolo era lo Starnuto di Ercole. L’autore col brio della sua immaginazione inviava Ercole nel paese dei Pigmei: questi piccinini sbigottiti alla vista di una montagna animata, che aveva gambe e braccia, si nascondevano nei loro buchi. Un giorno, in cui Ercole, sdraiato all’aperta campagna, dormiva tranquillamente, i timidi abitanti escirono dai loro ricoveri; armati di spine e di giunchi salirono sopra l’uomo mostruoso, e lo coprirono da capo a piedi, come farebbero le mosche assediando un pezzo di carne putrefatta. Si sveglia Ercole; sente roba nel naso, starnuta: i suoi nemici cascano per ogni banda, ed ecco terminata la rappresentazione. Vi si trova disegno, condotta, intreccio, catastrofe, accidenti: lo stile è buono, e ben mantenuto: i pensieri, i Sentimenti, tutto è proporzionato alla corporatura dei personaggi: i versi pure sono corti; tutto annunzia Pigmei. Bisognò fare un burattino gigantesco per il personaggio d’Ercole: in somma tutto ebbe buono effetto, ed il divertimento riuscì molto piacevole; scommetterei essere io stato il solo che abbia immaginato di eseguire la bambocciata del signor Martelli.

Terminate le nostre rappresentazioni, e la cura del conte Lantieri andando sempre di bene in meglio, mio padre cominciò a discorrere di ritornarsene a casa. Mi si propose nel tempo istesso di fare un giro col segretario del conte che era incaricato di commissioni del suo padrone. Mio padre mi accordò quindici giorni di assenza, e si partì per la posta in un calessino a quattro ruote. Arrivammo di primo lancio a Leiback, capitale della Carniola, sopra un fiume dell’istesso nome. Non vidi altro di straordinario, che certi gamberi di una bellezza maravigliosa, e grandi quanto le aliuste, essendovene alcuni della lunghezza di un piede. Di là passammo a Gratz, capitale della Stiria, ove trovasi un’antichissima e celeberrima università di maggior concorso che quella di Pavia, essendo i Tedeschi molto più studiosi e meno dissipati degl’Italiani. Avrei volontieri gradito di poter spingere il mio viaggio fino a Praga, ma il mio compagno di viaggio ed io eravamo affrettati, egli dagli ordini del suo padrone, ed io da quegli di mio padre. Tutto quel che protemmo fare fu di non ritornare per la medesima strada; traversammo la Carintia, vedemmo Trieste, considerabile porto di mare sull’Adriatico; di là passammo per Aquileia e per Gradisca, e ci restituimmo a Wippak due giorni più tardi di quel che ci era stato prescritto.

Subito che ritornai, mio padre prese congedo dal conte Lantieri, che gli regalò una rispettabile somma di danaro in ricompensa delle sue cure, unendovi una bellissima scatola col suo ritratto, ed un orologio di argento per me. Un giovine della mia età doveva essere molto contento, potendo avere un orologio d’argento! In oggi sdegnano di portarlo i lacchè. Nel prender la posta a Gorizia, pregai mio padre di preferire il cammino di Palma-Nuova, che non avevo veduta, ma in sostanza ciò facevo per non passar da Udine, ove l’ultimo fatto mi faceva temere qualche dispiacevole incontro: vi acconsentì di buona voglia, e vi arrivammo all’ora del primo pranzo.

Palma, o Palma-Nuova, è una delle più fortificate e più considerevoli città di Europa: appartiene ai Veneziani, ed è il baluardo meglio difeso per i loro Stati dalla parte della Germania. Le fortificazioni sono così bene disposte e così bene eseguite, che i forestieri vanno a vederle per curiosità, come un capo d’opera di architettura militare.

La Repubblica di Venezia manda a Palma un provveditor generale per governarla. Questi presiede al civile, al criminale ed al