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capitolo xvii 49


mette in moto in una volta, e tutti son ricevuti, ed han quartiere. Si vedono spesso trenta padroni in un medesimo castello ora in casa di alcuni, ora in casa d’altri; il conte Lantieri, però che era considerato per malato, non andava in alcun luogo, e riceveva tutti.

La sua tavola non era delicata, ma copiosissima. Mi ricordo ancora del piatto di arrosto, che era il piatto dell’etichetta: un quarto di montone o di capriolo, o un petto di vitella ne faceva la base: vi eran sopra lepri o fagiani con un ammasso di starne, pernici, poi beccaccini, e tordi e terminava la piramide con allodole e beccafichi. Questo bizzarro insieme era subito distribuito: appena giunto, andavano in giro gli uccelletti: ora questi, ora quelli tiravano a sè la selvaggina per tagliarla, e i dilettanti di carne ne vedevano allo scoperto quei grossi pezzi, che vie più aguzzavano il loro appetito.

Era pure d’etichetta il portare tre minestre in ogni pranzo: una zuppa con contorni, altra zuppa d’erbe nella prima portata, ed orzo mondo tra i piatti di mezzo; e si condiva quest’orzo col sugo dell’arrosto, e mi si diceva, che ciò conferiva molto alla digestione.

I vini erano eccellenti; vi era un certo vino rosso, che si chiamava fa-figliuoli, e che dava motivo a graziosissime lepidezze. Quello che m’infastidiva un poco, erano i brindisi che bisognava indirizzare ogni momento. Il giorno di san Carlo, il primo fu per sua Maestà Imperiale, e furono presentati a ciascuno dei commensali in tale occasione certi vasi da bere di una specie del tutto singolare. Era questa una macchina di vetro dell’altezza di un piede, composta di diverse palle che andavano degradando, e ch’erano separate da tubi; terminava in un’apertura bislunga che si presentava comodissimamente alla bocca, e dalla quale si faceva escire il liquore.

Si empiva il fondo di questa macchina, che si chiamava glo glo, avvicinandone poi la sommità alle labbra, e tenendo elevato il gomito, il vino, che passava per i tubi e per le palle, veniva a formare un suono armonioso onde tutti i commensali, facendo l’istesso in un tempo medesimo, mettevano insieme un accordo del tutto nuovo e piacevolissimo. Io non so se in quel paese persistano ancora tali usanze: tutto varia, ed ivi pure potrebbe essere variato costume; ma se vi fossero in quei paesi persone del tempo antico come me, avranno forse caro che io ne abbia risvegliato in loro la rimembranza.

Il conte Lantieri era contentissimo di mio padre, poichè andava molto migliorando, ed era prossimo alla guarigione. Aveva inoltre dei riguardi per me, e per procurarmi sollievo, fece mettere in ordine un teatro di marionette ch’era quasi in abbandono, ma molto ben corredato di figure e di decorazioni.

Io ne profittai, e tenni divertita la compagnia, dando una rappresentazione di un grand’uomo, fatta espressamente per i comici di legno; questa era lo Starnuto di Ercole di Pier Giacomo Martelli bolognese.

Quest’uomo celebre era il solo che avrebbe potuto lasciarci un teatro completo, se non avesse avuta la follìa d’immaginare certi versi di un nuovo genere per gl’Italiani, cioè versi di quattordici sillabe, rimati due per due come i versi francesi a un dipresso. Parlerò dei versi martelliani nella seconda parte di queste Memorie, poichè, a dispetto della loro proscrizione, io mi son preso il diletto di farli trovar buoni cinquant’anni dopo la morte del loro autore. Martelli aveva dato in sei volumi composizioni drammatiche di ogni genere possibile, cominciando dalla tragedia più grave fino alla farsa dei burattini, da lui detta Bambocciata, il cui