Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLVI

XLVI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XLVI
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CAPITOLO XLVI.

Cattivo alloggio. — Nuova spiacevole. — Intrapresa rischiosa. — Tristo avvenimento. — Laborioso viaggio. — Felicità inaspettata.

Tutto nella città di Pesaro era in confusione, dovendo essa ricevere più gente di quello che potesse contenere. Mancava luogo negli alberghi, nè si trovavan camere da appigionare. Il conte di Grosberg era in Fano; tutti gli uffiziali di mia relazione erano occupati, e le persone addette al servizio del duca di Modena non potevano esibirmi altro che la tavola. Uno staffiere modenese, cui era toccata una soffitta, mi cedè, col pagarlo, il suo bell’appartamento. Il giorno dopo lasciai mia moglie nella sua soffitta, ed andai all’imboccatura della Foglia per vedere se vi erano giunte le mie robe. Vi trovai tutti i miei compagni di viaggio, che vi si erano portati per l’istesso oggetto, e che avean passato la notte alloggiati anche peggio di me. Frattanto nessuna barca da Rimini, nessuna notizia delle nostre robe. Ritorno in città. Eravi appunto ritornato anche il conte di Grosberg, che, mosso a compassione de’ miei casi, mi dà alloggio in casa sua: eccomi contento; due ore dopo però ricado in una terribile costernazione. Incontro uno di quei commercianti da me veduti in riva al mare, il quale era tristo ed agitato. — Ebbene, signore, gli dissi, abbiamo noi nulla di nuovo? — Aimè! egli mi rispose, tutto è perduto; gli Usseri austriaci si sono impadroniti della Cattolica: la nostra barca, le nostre robe, i nostri servi sono adesso nelle loro mani. Ecco qui la lettera del mio corrispondente di Rimini che me ne dà parte. — Oh cielo! che cosa dunque farem noi? io ripresi. — Non so altro, risponde; — e mi lascia bruscamente. Resto senza parole. La perdita fatta era per me irreparabile. Mia moglie ed io eravamo benissimo corredati; avevamo tre bauli, due valigie, cassette, fagotti, ed eravamo rimasti senza camicia.

Ai mali grandi abbisognano grandi rimedi. Formo nell’atto il mio disegno; lo credo buono, e vado subito a comunicarlo al mio protettore. Lo trovo avvertito della invasione della Cattolica, e convinto della perdita delle mie robe. — Andrò dunque, io gli dissi, a fare i miei reclami; finalmente non son militare, non ho interesse alcuno con la Spagna, nè altro chiedo che una vettura per me e mia moglie. — Ammira il conte di Grosberg il mio coraggio, e per isbrigarsi forse di me, procura di farmi avere il passaporto dal commissario tedesco; che a tale effetto seguitava le truppe spagnuole, e dà gli ordini occorrenti perchè mi si procurasse una vettura. La posta non aveva corso in quel tempo, e tutti i vetturini si tenevano occulti. Se ne trovò finalmente uno, che fu forzato a condurmi, e fu trattenuto durante la notte nelle scuderie del signor Grosberg, e il giorno dopo si partì di buonissima ora. Non ho fatto parola alcuna della mia sposa dopo tal nuovo avvenimento per non annoiare il lettore. Si può immaginare facilmente qual doveva essere la condizione d’una donna, che perde ad un tratto i suoi cenci. Ma essa era di un fondo di cuore troppo buono e ragionevole; in somma, eccola in viaggio con me. Il vetturino, uomo molto scaltro ed avveduto, venne in cerca di noi senza darci il minimo segno di scontento, onde partimmo dopo una piccola colazione molto allegri ed in pace. Da Pesaro alla Cattolica ci corrono dieci miglia, ne [p. 128 modifica] avevamo già fatte tre, allorquando sopraggiunse a mia moglie un urgente disogno di scendere. Fo fermare; smontiamo, e facciamo un poco di strada a piedi per arrivare a qualche diroccato tugurio; lo scellerato che ci conduceva volta indietro i cavalli, prende il galoppo verso Pesaro, e ci pianta là in mezzo alla strada maestra, senza modo e senza speranza di provvedere al nostro caso. Non si vedeva passar per quel luogo anima vivente. Nessun abitante per le case; neppure un contadino nei campi; tutti temevano ravvicinamento dei due eserciti. Ecco mia moglie in pianto: io alzo gli occhi al cielo, e mi sento inspirato. — Coraggio, allora dissi, mia cara amica, coraggio: di qui alla Cattolica ci mancano sei sole miglia, siamo molto giovani, e siamo molto ben costituiti per sostenerle: non convien retrocedere; nè convien aver nulla da rimproverarsi. Essa aderisce alla proposta con la maggior grazia del mondo, onde continuammo a piedi l’intrapreso viaggio. In capo a un’ora di cammino, incontrammo un ruscello troppo largo per saltarlo, e profondo troppo perchè mia moglie lo potesse guadare; si vedeva, è vero, un piccolo ponte di legno per comodo dei pedoni, ma le tavole eran rotte e marcite. Non mi perdo d’animo; m’inginocchio, e mia moglie avviticchia le sue braccia la mio collo; mi alzo ridendo, attraverso il fiume con un’allegrezza indicibile, e dico a me stesso omnia bona mea mecum porto. Avevamo bagnati i piedi e le gambe; pazienza. Noi andiamo avanti, quand’ecco di lì a poco un altro ruscello simile al primo. L’istesso fondo, l’istesso ponte fracassato. Ma senza la minima difficoltà lo passammo nell’istesso modo, e sempre coll’istesso buon umore. L’affare però variò molto, allorquando, avvicinandoci alla Cattolica, c’incontrammo in un torrente molto più esteso, che con grand’impeto menava le sue acque; ci ponemmo pertanto a sedere a piè d’un albero, aspettando che la provvidenza ci presentasse un mezzo per traversarlo senza pericolo. Non si vedean passare nè vetture, nè cavalli, nè carrette, nè v’era in quei contorni neppure un’osteria; affaticati, e scorsa la giornata senza prendere il minimo cibo, avevamo bisogno di rifocillarci. M’alzo, e procuro d’orientarmi. Questo torrente, io dissi, deve necessariamente scaricarsi nel mare. Seguitiamo i suoi argini, ne troveremo l’imboccatura. Camminando sempre oppressi dalla costernazione, e sostenuti dalla speranza, scoprimmo da lungi alcune vele che c’indicavano la vicinanza del mare; prendemmo coraggio e raddoppiammo il passo. A proporzione che ci avanzavamo, vedevamo divenir praticabile il torrente, e tostochè distintamente scoprimmo un battello, si diè in salti ed in grida di gioia. Erano pescatori, che ci ricevettero umanissimamente, che ci trasportarono alla riva opposta, e ci ringraziarono mille volte per un paolo che loro io diedi.

Dopo questa prima consolazione, ne avvenne una seconda che non fu meno piacevole, e necessaria: una frasca attaccata ad una rustica abitazione ci annunziò il mezzo di rinfrescarci; vi trovammo latte ed uova fresche. Eccoci contenti. Il riposo e il poco cibo che prendemmo diede a noi bastante forza per compiere il viaggio, onde ci facemmo condurre da un servente dell’albergo al primo posto avanzato degli Usseri austriaci. Presento subito al sargente il mio passaporto. Costui stacca due soldati per scortarci, e traversando grani calpestati, e viti ed alberi a terra, giungemmo finalmente al quartiere del colonnello comandante.

Fummo da principio accolti da questo uffiziale come due persone che viaggiavano a piedi, ma letto il passaporto rimessogli dai due soldati che ci avevan là condotti ci fa sedere, e guardandomi con [p. 129 modifica] aria di bontà: — Como? egli mi disse, voi siete il signor Goldoni? — Ahimè! pur troppo è così, o signore. — L’autore del Belisario? l’autore del Cortesan veneziano?... — Quell’istesso. — E questa è la signora Goldoni? — Sì; ed è tutto il bene che mi rimane. — M’era stato detto che eravate a piedi. — Pur troppo è vero, signore. — Qui gli raccontai l’azione indegna fattaci dal vetturino di Pesaro; gli dipinsi al vivo il quadro del nostro doloroso viaggio, e terminai con tenergli proposito delle nostre robe arrestate, facendogli capire, che le mie mire, i miei mezzi, ed il mio stato dipendevano del tutto dalla loro perdita, o dalla loro recuperazione. — Adagio, rispose il comandante; per qual ragione eravate voi dietro l’esercito? Quale motivo vi unisce agli Spagnuoli? — Siccome la verità non mi aveva mai fatto torto, anzi era sempre stata il mio appoggio e la mia unica difesa, gli feci il compendio de’ miei avvenimenti, gli parlai del mio consolato di Genova, delle mie rendite di Modena, delle mie vedute per esserne indennizzato, dicendogli in fine, che per me tutto era perduto, quando fossi rimasto privo dello scarso avanzo della mia lacera fortuna. — Consolatevi, egli mi disse, in tono amichevole, voi non lo perderete. — A questo dire, mia moglie si alza, piangendo dal contento. Io voglio dimostrare la mia gratitudine, il colonnello non mi ascolta; chiama ed ordina, che sia fatto venire il servitore e tutte le mie robe, con un patto però, egli disse, che andiate pure dove volete, fuorchè a Pesaro; ve lo proibisco. — Oh! no certamente, io risposi, le vostre dimostrazioni di bontà, o signore, le mie obbligazioni... — Non mi dà tempo di dir tutto, ha da fare; mi abbraccia, bacia la mano a mia moglie, e si rinchiude nel suo gabinetto. Il suo cameriere ci accompagna ad un albergo molto proprio; gli offro uno zecchino, lo ricusa nobilmente e se ne va. Una mezz’ora dopo arriva il mio servitore che si struggeva in lagrime, per la consolazione di vedersi in libertà e trovarci contenti. I nostri bauli erano aperti; avendone con me le chiavi, ben presto un magnano li mise in istato di essere servibili. Noleggiai il giorno dopo di buonissim’ora una carretta per il mio bagaglio, presi la posta per la moglie e per me, e andammo così a ritrovare i nostri amici di Rimini.