Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLVII
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CAPITOLO XLVII.
- Mio arrivo a Rimini. — Felice incontro. — Onorevole e lucrosa commissione. — Renunzia al consolato di Genova. — Altra commissione, anche più lucrosa. — Marcia dei Tedeschi di Rimini diretta ad inseguir gli Spagnuoli. — Mia partenza per la Toscana.
Giunto al primo posto avanzato delle truppe, spiego il mio passaporto, onde mi si fa scortare fino al corpo di guardia di Rimini. Il capitano era a tavola, e appena sente che vi è un uomo ed una donna arrivati per la posta, ci fa passare, e la prima persona che entrando mi si presenta all’occhio, è il signor Borsari, mio amico e compatriota, e primo segretario del principe Lobcowitz feld-maresciallo e comandante generale dell’esercito imperiale. Sapeva benissimo il signor Borsari, che avevo passato l’inverno a Rimini, e ch’ero partito per seguir gli Spagnuoli, onde lo posi al fatto dei motivi del mio ritorno, delle singolarità del mio viaggio, e del disegno di portarmi a Genova. — No, egli disse, fintantochè resteremo qui, voi non andrete a Genova. — Ma che farò io qui? gli rispondo. — Vi divertirete. — Oh questo è il miglior mestiere che io conosca; per altro è necessario darsi qualche occupazione. — Noi, noi vi occuperemo; presentemente abbiamo una commedia assai passabile. — E quali sono gli attori principali? — Vi è la signora Casalini buonissima attrice, vi è la signora Bonaldi... — Forse la servetta? — Sì... — Meglio, meglio: questa è la mia comare, la rivedrò con sommo piacere. — Frattanto, mentre ragionavamo così il signor Borsari ed io, mia moglie sosteneva con qualche repugnanza la conversazione dei signori uffiziali tedeschi, che non piegavano avanti le donne le ginocchia come gli Spagnuoli. Mi fece cenno di non ne poter più: onde prendemmo congedo dalla compagnia, rimanendo con noi il signor Borsari. Il mio servitore era ad aspettare alla porta per avvertirmi che il solito appartamento era allogato; ma mi promise il signor Borsari di farmelo avere, mutando quartiere all’uffiziale che lo abitava, il quale era di sua conoscenza. Ci condusse frattanto in sua casa, e ci propose una camera accanto alla sua, che con piacere accettammo, e che fu da noi occupata per soli tre giorni. Il dì seguente fui presentato da questo buon amico al suo padrone. Aveva già il principe inteso parlare di me: mi comunicò le sue idee per una festa, e m’incaricò dell’esecuzione.
L’imperatrice regina Maria Teresa maritava l’arciduchessa sua sorella al principe Carlo di Lorena. Il maresciallo Lobcowitz voleva che Rimini pure desse qualche dimostrazione di gioia per quell’augusto imeneo; mi ordinò pertanto una cantata, e si rapportò a Borsari e a me, per la scelta del compositore, e per il numero e per la qualità delle voci. Ci lasciò arbitri ed assoluti padroni di tutto, solo raccomandandoci l’ordine e la prontezza. Si trovava appunto in Rimini un maestro di musica napoletano chiamato Ciccio maggiore, professore non già di prim’ordine, ma passabile in tempo di guerra. Lo incaricammo di tal lavoro, si fecero venire da Bologna due cantori e due cantatrici, ed io adattai le parole alla vecchia musica del nostro compositore. In capo a un mese fu eseguita la nostra cantata sul teatro della città, col contento di chi l’aveva ordinata, e con soddisfazione degli uffiziali forestieri e della nobiltà del paese. Il compositore ed io fummo generosissimamente ricompensati dal generale tedesco; ed oltre a ciò il napoletano, che non era sbalordito, avevami suggerito un mezzo di più, da lui forse altra volta esperimentato per ottimo, affine d’aumentare il nostro profitto.
Si fece molto nobilmente legare una quantità considerabile di esemplari della nostra cantata già messa alle stampe, andammo in una bella carrozza a presentarla a tutti gli uffiziali di stato maggiore dei diversi reggimenti acquartierati nella città, e circondarii della medesima, e portammo a casa una borsa ben piena di zecchini di Venezia, di doppie di Spagna e quadrupli di Portogallo, che colla massima tranquillità e convenienza dividemmo fra noi. Mi fu scritto in questo tempo da Genova che un negoziante veneto, senza mira alcuna di pregiudicarmi, domandava il mio impiego di console, nel caso che io non avessi più la volontà di continuarlo, esibendosi di prestar servizio senza onorario alcuno; contentissimo di un titolo, che, riguardo al suo stato, poteva essergli molto più vantaggioso, che a me. Così il senato di Genova non mi rigettava, ma mi poneva nel caso, o di dimettermi o di servir gratis. Adottai il primo di questi due partiti, ringraziai la Repubblica, nè più vi pensai. E poi, avevo tanto sofferto, che, per vero dire, mi piaceva di stare un poco in pace; avevo danaro, non avevo nulla da fare, ed ero felice. Rimini per tutti quelli che lo avevan veduto nel tempo del soggiorno degli Spagnuoli, non si riconosceva: vi erano divertimenti di ogni sorta: balli, accademie, giuochi pubblici, conversazioni allegre, gioventù vivace; vi si trovavano passatempi adattati a qualunque stato e carattere. In quanto a me, amavo mia moglie, dividevo con lei i piaceri, ed ella mi seguiva dovunque. Nella sola casa della mia comare ricusò di venir meco; non che essa mi impedisse di andarvi, ma quell’attrice non le andava a genio, e dei gusti non si può disputare. Finalmente la mia povera comare fu obbligata a partirsene. Gli uffiziali tedeschi volevano nel carnevale l’opera, e i comici furono costretti a cedere il posto. Il conte Novati milanese, luogotenente dell’esercito delle loro maestà imperiali, s’era preso il carico del nuovo spettacolo e mi fece l’onore di propormene la direzione. L’accettai con piacere, nè ebbi luogo di pentirmene, facendomi godere la generosità di quel signore, vantaggi che io non avrei mai potuto aspettarmi. Andava dunque di bene in meglio: la fortuna a mio riguardo aveva voltato faccia, ed effettivamente dopo l’ultima disgrazia della Cattolica e quella del mio ritorno a Rimini, non ho più sostenuto quei colpi terribili, dai quali pareva sempre che io dovessi rimanere annientato. L’opera terminò col carnevale, e succedettero alle distrazioni divertevoli gli affari di politica e di guerra.
Al principio della quaresima il feld-inaresciallo austriaco richiamò tutte le truppe accantonate nella Romagna, ed io godei il piacevole colpo d’occhio di una rivista generale di quarantamila uomini. Era questo il segnale della partenza degli Austriaci; onde feci le mie dipartenze coll’amico Borsari, e quaranta giorni dopo non vi era più un Tedesco in quel paese, che oggi si chiama Romagna, e che al tempo degli Imperatori romani dicevasi Esarcato di Ravenna.
Io pure volevo partire: ma il viaggio di Genova essendo allora divenuto inutile per me, libero e padrone come io era della mia volontà, e sufficientemente provvisto di danaro, misi in esecuzione un altro mio antico disegno. Volevo veder la Toscana, volevo percorrerla ed abitarla per qualche tempo, abbisognandomi trattar familiarmente con i Fiorentini ed i Senesi, testi viventi della buona lingua italiana. Ne feci parte a mia moglie, e non le tacqui che questa strada ci avvicinava a Genova: essa parve contenta, e restò dunque deciso il viaggio per Firenze.