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capitolo xlvii 129


aria di bontà: — Como? egli mi disse, voi siete il signor Goldoni? — Ahimè! pur troppo è così, o signore. — L’autore del Belisario? l’autore del Cortesan veneziano?... — Quell’istesso. — E questa è la signora Goldoni? — Sì; ed è tutto il bene che mi rimane. — M’era stato detto che eravate a piedi. — Pur troppo è vero, signore. — Qui gli raccontai l’azione indegna fattaci dal vetturino di Pesaro; gli dipinsi al vivo il quadro del nostro doloroso viaggio, e terminai con tenergli proposito delle nostre robe arrestate, facendogli capire, che le mie mire, i miei mezzi, ed il mio stato dipendevano del tutto dalla loro perdita, o dalla loro recuperazione. — Adagio, rispose il comandante; per qual ragione eravate voi dietro l’esercito? Quale motivo vi unisce agli Spagnuoli? — Siccome la verità non mi aveva mai fatto torto, anzi era sempre stata il mio appoggio e la mia unica difesa, gli feci il compendio de’ miei avvenimenti, gli parlai del mio consolato di Genova, delle mie rendite di Modena, delle mie vedute per esserne indennizzato, dicendogli in fine, che per me tutto era perduto, quando fossi rimasto privo dello scarso avanzo della mia lacera fortuna. — Consolatevi, egli mi disse, in tono amichevole, voi non lo perderete. — A questo dire, mia moglie si alza, piangendo dal contento. Io voglio dimostrare la mia gratitudine, il colonnello non mi ascolta; chiama ed ordina, che sia fatto venire il servitore e tutte le mie robe, con un patto però, egli disse, che andiate pure dove volete, fuorchè a Pesaro; ve lo proibisco. — Oh! no certamente, io risposi, le vostre dimostrazioni di bontà, o signore, le mie obbligazioni... — Non mi dà tempo di dir tutto, ha da fare; mi abbraccia, bacia la mano a mia moglie, e si rinchiude nel suo gabinetto. Il suo cameriere ci accompagna ad un albergo molto proprio; gli offro uno zecchino, lo ricusa nobilmente e se ne va. Una mezz’ora dopo arriva il mio servitore che si struggeva in lagrime, per la consolazione di vedersi in libertà e trovarci contenti. I nostri bauli erano aperti; avendone con me le chiavi, ben presto un magnano li mise in istato di essere servibili. Noleggiai il giorno dopo di buonissim’ora una carretta per il mio bagaglio, presi la posta per la moglie e per me, e andammo così a ritrovare i nostri amici di Rimini.

CAPITOLO XLVII.

Mio arrivo a Rimini. — Felice incontro. — Onorevole e lucrosa commissione. — Renunzia al consolato di Genova. — Altra commissione, anche più lucrosa. — Marcia dei Tedeschi di Rimini diretta ad inseguir gli Spagnuoli. — Mia partenza per la Toscana.

Giunto al primo posto avanzato delle truppe, spiego il mio passaporto, onde mi si fa scortare fino al corpo di guardia di Rimini. Il capitano era a tavola, e appena sente che vi è un uomo ed una donna arrivati per la posta, ci fa passare, e la prima persona che entrando mi si presenta all’occhio, è il signor Borsari, mio amico e compatriota, e primo segretario del principe Lobcowitz feld-maresciallo e comandante generale dell’esercito imperiale. Sapeva benissimo il signor Borsari, che avevo passato l’inverno a Rimini, e ch’ero partito per seguir gli Spagnuoli, onde lo posi al fatto dei motivi del mio ritorno, delle singolarità del mio viaggio, e del disegno di portarmi a Genova. — No, egli disse, fintantochè reste-