Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLV

XLV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XLV.

Mio imbarco per Bologna. — Guadagni casuali in questa città. — Cattiva nuova. — Viaggio a Rimini. — Mio arrivo. — Mia presentazione al duca di Modena. — Osservazioni sul campo degli Spagnuoli. — Compagnia di comici a Rimini. — Il mondo della luna, commedia. — Movimenti delle truppe austriache. — Ritirata degli Spagnuoli.

Malinconico, pensoso, e immerso nel cordoglio ero per passare una cattiva notte in quell’istessa barca corriera da me trovata in altri tempi comodissima, e sommamente divertevole. Mia moglie più ragionevole di me, invece di lagnarsi della propria condizione, cercava tutti i mezzi per consolarmi. Rianimato dal suo esempio e consiglio, procurai di sostituire ai disgusti del passato la speranza di un più felice avvenire. Presi sonno, e mi trovai allo svegliarmi come un uomo che ha fatto naufragio, e che nuotando giunge a salvamento. Giunto al ponte di Lago-scuro sul Po, una lega distante da Ferrara, presi la posta e arrivai la sera a Bologna. Io era molto pratico di quella città, e v’ero conosciutissimo. Subito si portarono da me i direttori degli spettacoli, e mi domandarono alcune composizioni; feci difficoltà, ma essendo in bisogno di danaro, essi non trascurarono d’esibirmene, nè io trascurai d’accettarlo. Affidai loro tre miei originali, perchè ne facessero estrarre le copie. Bisognava dunque aspettare; aspettai senza però perdere il tempo.

Avevo avuta da Venezia la richiesta di una commedia senza donne, e suscettibile di qualche esercizio militare per un collegio di Gesuiti. Il finto capitano appunto, da cui ero stato ingannato, mi tornò subito alla memoria, e me ne somministrò l’argomento. Intitolai pertanto la mia rappresentazione L’Impostore: feci uso di tutta l’energia che lo sdegno poteva inspirarmi, collocandovi mio fratello in tutta l’estensione del fatto, nulla risparmiando a me stesso e dando alla mia balordaggine tutto il ridicolo di cui era meritevole. Questo piccolo lavoro mi produsse un infinito bene, e dissipò dal mio animo il turbamento che la malignità di un birbante vi aveva destato. Mi credetti vendicato.

Ultimata la mia composizione, e restituitimi dai direttori i manoscritti, ero per partir per Modena. Si trovava in Bologna un eccellente attore per le parti di Pantalone, il quale per essere molto comodo, aveva piacere di starsene in riposo nella bella stagione, e far il comico nell’inverno solamente. Quest’uomo chiamato Ferramenti non mi aveva lasciato un momento in tutto il tempo del mio [p. 125 modifica] soggiorno in Bologna, ed essendo stato fissato da una compagnia di comici che era in Rimini al servizio del campo spagnuolo, prossimo a mettersi in viaggio, venne a far meco le sue dipartenze. — Voi dunque partite per Rimini, io gli dissi, ed io vado a Modena. — E che cosa mai, egli riprese, andate voi a fare a Modena? tutti sono in costernazione; manca il duca. — Come, manca il duca? — Sì, egli si è impegnato in una guerra rovinosa. — Lo so, ma dov’è presentemente? — Trovasi a Rimini al campo degli Spagnuoli, ove passerà tutto l’inverno. — Eccomi nel maggior rammarico; il colpo è andato a vuoto, e tutto per colpa mia, poichè ho perduto troppo tempo. — Deh venite, soggiunse il Ferramonti, venite a Rimini meco, vi assicuro, che vi troverete una compagnia comica assai buona; vi presenterò a’ miei compagni, essi debbono già conoscervi, debbono già stimarvi. Venite, venite meco, farete qualche cosa per noi. — Veramente la proposizione non mi dispiaceva, ma volevo prima sentir mia moglie; essendo essa genovese, eravamo appunto in strada per andare a rivedere i parenti; povera figliuola! era l’istessa bontà, l’istessa compiacenza, approvava sempre tutto quello che proponeva suo marito. Pago pertanto di vedermi in pace, e soddisfatto, presi coraggio per dare effetto alla mia nuova idea, onde partimmo, tre giorni dopo, in compagnia del buon vecchio veneziano. Giunti alla vista delle fortificazioni di Rimini, fummo arrestati al primo posto avanzato, e fatti scortare fino alla gran guardia. Quivi il comico fu messo in libertà sulla buona fede della dichiarazione del suo stato, ed io con la moglie fummo spediti alla corte di Modena.

Avevo conoscenza con parecchie persone d’ogni ceto, addette al servizio di S. A. S.; fui perciò bene accolto, mi fu fatta molta festa, mi si trovò un comodo appartamento, ed il giorno dopo fui presentato a questo principe, che mi ricevè con bontà, domandandomi qual fosse il motivo che mi conduceva a Rimini. Non stentai punto a dirgli la verità; ma alle parole di banca ducale, e di rendite indugiate, Sua Altezza voltò il discorso alla commedia, alle mie rappresentazioni, ai miei successi, e terminò l’udienza due minuti dopo. Vidi bene, che da questa parte non vi era nulla da sperare, onde mi rivolsi a quella dei comici, e vi trovai meglio il mio conto.

Andai a desinare in casa del direttore, e Ferramonti aveva già parlato molto di me. Vi si trovavano tutti; la prima amorosa era un’attrice eccellente, ma molto avanzata in età; bella, ma stupida e male educata. Colombina poi bruna, fresca e bizzarra, era prossima a partorire, e (sia detto fra parentesi) diventò subito mia comare. Era la servetta; e lì stava il mio forte. Tutti mi chiedevano rappresentazioni, e ciascuno avrebbe voluto essere soggetto principale; a chi dar la preferenza? mi levò d’imbroglio il signor conte di Grosberg. Questo bravo uffiziale, brigadiere dell’esercito di sua Maestà Cattolica nel reggimento delle guardie svizzere, era uno di quelli che prendeva parte più degli altri allo spettacolo; proteggeva sopra tutto l’Arlecchino, onde mi pregò di lavorare per questo personaggio, ciò che feci con molto più piacere, in quanto che era buono l’attore, e generoso il protettore. Faceva da Arlecchino il signor Bigottini, molto abile nel recitare la sua parte, ma insuperabile poi nelle metamorfosi o trasformazioni. Il signor conte di Grosberg si ricordava d’una rappresentazione dell’antica fiera di Parigi intitolata: Arlecchino imperatore nella luna. Pensava che questo argomento potesse far spiccare il suo protetto, nè aveva [p. 126 modifica] torto. Lavorai adunque su questo titolo la composizione di mio genio, ed ebbe buon successo; ne furon tutti contenti, ed io pure. Terminò il carnevale, e si chiuse il teatro. Il signor de Gages, il quale dopo il generalissimo era il general comandante, faceva osservare a tutto l’esercito il più esatto buon ordine, e la disciplina più rigorosa: verun giuoco, verun ballo, niuna donna sospetta. Si viveva in Rimini come appunto in un convento.

Gli Spagnuoli corteggiavano le signore del paese alla maniera castigliana, ed esse avean molto caro di vedere i figli di Marte piegar le ginocchia davanti a loro. Le conversazioni erano numerose, e senza tumulto, e vi spiccava la galanteria senza scandalo. Godevo pertanto come gli altri di questa dolce calma sparsa nelle migliori case della città, facendo la mia corte alle dame con la nobile continenza degli Spagnuoli, e vedendo qualche volta la mia comare coll’allegrezza italiana. Aspettavo intanto la buona stagione per andare a Genova. Ma che traversie! che rivoluzioni! che avvenimenti! Le truppe tedesche accantonate nel bolognese fecero alcune evoluzioni che incussero timore agli Spagnuoli. Essi non eran disposti ad aspettare il nemico a piè fermo, onde secondo che i primi avanzavano verso la Romagna, gli ultimi battevano la ritirata, e andavano a spartire il loro campo, tra Pesaro e Fano. Tutti gli Spagnuoli, che si trovavano a Cesena, Cervia e Cesenatico, vennero a riunirsi in Rimini al grosso dell’esercito, onde fui obbligato a far parte del mio quartiere; ma questo non è ancor tutto, anzi non è nulla. Mio fratello, il mio amabile fratello, venne in quel tempo stesso da Venezia in compagnia di due uffiziali veneziani per proporre al signor de Gages la leva di un nuovo reggimento ove mi serbava la carica di auditore. D’avanzo avevo imparato a diffidare delle proposte, non volli neppure ascoltarle, era però necessario alloggiarli, e mantenerli. Dopo tre giorni si mosse l’esercito, e mio fratello con i suoi compagni lo seguitarono. Io rimasi in Rimini sempre più impacciato che mai. Suddito del duca di Modena e console di Genova a Venezia, essendo queste due nazioni in quella guerra del partito dei Borboni, avevo ragion di temere, che gli Austriaci non mi prendessero per un uomo sospetto. Comunicai i miei timori a persone del paese di mia conoscenza, e tutti li trovarono giusti, e mi consigliavano a partire. Ma come fare? Non vi erano cavalli, nè vetture. Tutto aveva trascinato seco l’esercito. Alcuni mercanti forestieri erano nel medesimo caso di me. Me la intesi con loro, prendemmo la parte del mare, e noleggiammo una barca per Pesaro. Il tempo era bello, ma per essere stata burrascosa la notte, il mare trovavasi tuttavia in agitazione. Le donne soffrivano molto, e la mia sputava perfin sangue, però ci fermammo alla rada della Cattolica a mezza strada del viaggio proposto, e terminammo il. cammino per terra sopra un carretto da contadini, lasciando alla guardia delle robe alcuni dei nostri servitori, che doveano riunirsi con noi in Pesaro, ove arrivammo stanchi, rotti, senza conoscenze e senza quartiere. Tutto questo era il menomo dei mali che ancora ci sovrastavano.