Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLIV

XLIV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XLIV
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CAPITOLO XLIV.

Preparativi per il mio viaggio. — Pretensioni di mio fratello. — Lettera da Genova. — Morte della Baccherini. — Nuova commissione in Venezia. — Statira, opera seria. — Brutto regalo di mio fratello. — Sottigliezze di un falso capitano. — Mia grande sciagura. — Partenza da Venezia.

Partiti i comici, rimasi isolato, poichè nella condizione spiacevole in cui ero, qualunque altra conversazione mi annoiava. Mi occupavo adunque soltanto del mio viaggio: mia madre, la zia, non avevano bisogno di me, la moglie mi seguitava, il solo fratello era a carico di tutti.

Aveva la più alta idea di sè stesso, e si maravigliava della mia maniera di pensare, perchè non secondavo punto i suoi sentimenti. Avrebbe, per esempio, preteso, che io lo avessi proposto a surrogarmi nell’impiego nel tempo della mia assenza da Venezia, ovvero che lo avessi mandato a Genova, per sollecitare i salarii del mio impiego: ma io non lo credevo atto a nessuna di codeste commissioni, e attendevo alle mie faccende, aspettando lettere da Genova per dare effetto all’idea propostami.

Giungono le lettere, mi si concede il domandato permesso, e si approva il sostituto: eccomi contento. Anderò a Modena per ripetere i pagamenti delle mie rendite; passerò a Genova a fare istanze per l’onorario della mia carica, ed assisterò alle prove della Donna di garbo: la Baccherini forse avrà bisogno di me, o almeno le sarà caro rivedermi. Le attrattive di questa amabile attrice avvaloravano ancor più le mie premure, e mi congratulavo meco stesso vedendola sostenere una parte di tanto rilievo nella mia rappresentazione.

Ma, oh cielo! il fratello della signora Baccherini era ancora in Venezia. Viene a casa mia: mi si presenta nella maggior costernazione, e senza proferir parola mi dà a leggere una lettera proveniente da Genova: sua sorella era morta. Che fiero colpo per me! non era l’amante che piangeva la sua bella, ma l’autore che dolevasi della perdita di un’eccellente attrice. Mi vide addolorato anche mia moglie, ma essa era abbastanza ragionevole per uniformarsi alle mie idee. Dopo questo avvenimento non mutai pensiero, fui bensì meno sollecitato a partire, anzi credetti di poter differire ancora la mia partenza. Una società di nobili veneziani aveva preso a fitto per cinque anni il teatro di San Giovanni Crisostomo, e mi aveva chiesto un’opera per la fiera dell’Ascensione. Avevo ricusato di soddisfarla, ma divenuto padrone del mio tempo, accettai la commissione e terminai in pochi giorni un’opera intitolata Statira, e che già avevo nel mio portafogli. Assistei da me stesso alle prove ed all’esecuzione di questo dramma; profittai dei diritti di autore, ed oltre a ciò di una straordinaria ricompensa datami da quelli impresarii generosi. Avevo dunque motivo di esser contento per aver prolungato il mio soggiorno in Venezia; ma pagai ben caro in seguito un tal piacere, ed a mio fratello soltanto dovetti l’obbligo del travaglio crudele in cui mi trovai.

Un giorno egli entra in mia casa a due ore dopo il mezzodì, e picchia col bastone alla porta della mia stanza: apro, lo vedo col cappello sugli occhi, con volto acceso, e guardatura scintillante. [p. 122 modifica]

Non sapevo se ciò proveniva da collera o allegrezza; quando, fissandomi con aria sdegnosa, — Per bacco! mi dice: fratello, non vi burlerete sempre di me! — Su qual proposito? gli risposi. — Io non so far versi, egli riprese: ciascuno per altro ha la sua abilità; ed or ora ho fatto una grande scoperta. — Se questa è per esservi utile, soggiunsi, ne avrò estremo piacere. — Sì, utile ed onorevole per me, e molto più onorevole ed utile per voi. — Per me? — Sì, ho fatto recentemente la conoscenza di un capitano raguso, d’un uomo... d’un uomo insomma che non ha l’eguale. Egli è in corrispondenza colle principali Corti d’Europa, ed ha commissioni da far spavento; adesso è incaricato di arruolare per un nuovo reggimento di due mila schiavoni. Ma, oh cielo! Se il governo di Venezia penetrasse mai una tal cosa, saremmo perduti. Fratel mio... Fratel mio... mi son lasciato scappare la parola di bocca... Voi conoscete l’importanza della circospezione. — Ero per fargli alcune riflessioni. — Ascoltatemi, riprese subito interrompendomi, si tratta per me di un posto di capitano: ho servito, come sapete, in Dalmazia, lo sa pure il mio amico, anzi ha conosciuto a Zara il mio zio Visinoni, insomma, mi destina una compagnia. Per voi poi, egli proseguì, per voi poi, fratel mio, ha in vista un’altra cosa. — Per me? Che diavolo vuol far di me? — Vi conosce per fama, e vi stima; dovete essere auditore; sarete il gran giudice del reggimento. — Io? — Sì, voi. Entra in quell’istante il servitore e ci avvisa che s’era messo in tavola. — Va al diavolo, rispose mio fratello, abbiamo degli affari, non vedi? lasciaci in pace. — Ma non potremmo noi, ripresi allora, differire il discorso al dopo desinare? — Niente affatto: ora è necessario aspettare. — Perchè? — Perchè è per venire il signor capitano. — Che, lo avete invitato? — Trovate forse mal fatto l’essermi presa la libertà di invitare un amico? — Il signor capitano è vostro amico? — Non ne dubito. — Ma come? avete fatto con lui appena conoscenza, ed è già vostro amico? — Oh! noi altri militari non siamo cortigiani: ci conosciamo di primo acchito; stringono la nostra lega l’onore e la gloria, e diveniamo amici un momento dopo. — Arriva mia moglie, e ci prega di terminare. — Oh! Dio! grida mio fratello, siete, signora mia, molto impaziente. — Non son io, essa rispose, è vostra madre che s’impazientisce. — Mia madre... Mia madre... Desini dunque, e vada a letto. — Il vostro parlare, dissi allora, puzza molto, fratel mio, di polvere da schioppo. — È vero, è vero, me ne dispiace, ma il capitano non dovrebbe indugiar di più. — Si sente picchiare, ed è il signor capitano: un mare di complimenti, un mare di scuse; finalmente eccoci a desinare. Quest’uomo aveva più ciera di cortigiano che di militare. Scaltro, affabile, manieroso, di viso pallido e lungo, naso aquilino ed occhi tondi e verdastri, molto galante, attento in servir le signore, diceva cose morali alle vecchie, e teneva discorsi piacevoli colle giovani, senza che le belle istoriette gl’impedissero di ben mangiare. Si prese il caffè senza alzarci da tavola, e intanto mio fratello mi rinfrescava la memoria di tutto quel resto di bottiglie che avevo, per farne un dono al suo amico. Finalmente il Raguseo, mio fratello ed io, andammo a chiuderci nel mio studio.

Siccome la raccomandazione avuta dal fratello non mi dava una idea vantaggiosa in favore dell’uomo a me ignoto, non mancando costui di scaltrezza e previsione, mi espose in un rapidissimo ed elegantissimo preambolo nome, patria, condizione, titoli, prodezze; dando fine col pormi sott’occhio le patenti scritte in lingua italiana [p. 123 modifica] dalle quali constava la commissione di arruolare due mila uomini di nazione illirica per un nuovo reggimento al servizio della potenza dalla quale veniva incaricato. In queste lettere il Raguseo era dichiarato colonnello del nuovo reggimento, con facoltà di nominare a suo arbitrio gli uffiziali, il giudice, i forieri, ed i provvisionierì ecc. Vi era la soscrizione del sovrano, come pure quella del ministro e segretario di Stato del dipartimento di guerra col sigillo della corona.

Non avendo io cognizione bastante di codeste firme straniere, diffidavo sempre di un uomo che vedevo per la prima volta, e aspettando di esser meglio in grado di verificarne l’autenticità, feci alcune interrogazioni al signor capitano, cui non mancò di dare risposte soddisfacenti. Gli domandai subito per qual casualità noi saremmo stati così felici tanto io che mio fratello, da muovere la di lui benevolenza in nostro favore. Il vostro signor fratello, egli rispose, è un uomo, che può essere utilissimo alle mie mire. Conosce la Dalmazia e l’Albania ov’egli ha servito, e queste appunto sono le due provincie capaci di somministrare begli uomini per un reggimento. Ho fatto il conto di munirlo di lettere e danaro per ispedirlo a far colà coscritti senza indugio. A questo discorso mio fratello si getta al collo del Raguseo gridando: Vedrete, vedrete, mio amico: vi condurrò dalmatini, albanesi, croati, morlacchi, turchi, diavoli: lasciatemi fare, gospodina, gospodina, dobro jutro, gospodina.

Il capitano, anch’esso schiavone, si burlava forse del saluto illirico e fuori di proposito di mio fratello, ed incominciò a ridere; indi voltandosi verso me: Per voi poi, o signore, egli mi disse, mi fo un onore, pregandovi di accettare nel mio reggimento la carica di auditor generale. Voi siete uomo già perito nella curia e il vostro titolo di console... Ma a proposito del posto che occupate (andò egli proseguendo), debbo domandarvi una grazia. Io mi ritrovo in Venezia, cioè in un paese libero, ma l’affare di cui attualmente vi parlo, è dell’ultima delicatezza, potendo irritare il governo a motivo de’ suoi nazionali dalmatini; sono attorniato da esploratori che non mi lasciano; temo di qualche sorpresa: se voi poteste collocarmi in casa vostra, non sarei forse in salvo dalle persecuzioni della Repubblica, ma avrei tempo di evitarle. — Signore, io gli dissi, il mio quartiere non è bastantemente comodo. — Grida allora mio fratello, interrompendomi: Cederò la camera io al signor capitano. — Mi schermisco, ma inutilmente: ecco il Raguseo in casa. Veramente la compagnia di quest’uomo era piacevolissima, e benchè non fossi tanto facile a lasciarmi vincere, tuttavia duravo fatica a riguardarlo sempre per sospetto. Non volevo per altro aver nulla da rimproverarmi. Di mano in mano che sentivo parlare di persone interessate nel segreto dell’affare in questione, correvo subito per informazioni. Trovai alcuni negozianti incaricati delle uniformi del reggimento, e parlai con uffiziali ingaggiati dal colonnello inviato. Questo uomo riceve un giorno una lettera di cambio di sei mila ducati sui fratelli Pommer banchieri tedeschi; non fu accettata, perchè mancante di lettera di avviso, ma le firme erano perfettamente imitate; sicchè finalmente vi credetti, e caddi nella rete.

Tre giorni dopo entra il Raguseo in casa mia agitato e nella maggior costernazione; doveva pagare sei mila lire in quel giorno, nè aveva potuto ottenere dilazione alcuna; era perciò esposto a molestie; la natura del debito andava a scoprir tutto: era in disperazione: tutto era perduto. Il suo discorso mi commove; mio [p. 124 modifica] fratello mi stimola, la mia sensibilità mi determina. Fo non pochi sforzi per ammassare questo danaro, ho la fortuna di riuscire nell’intento, consegno nel giorno istesso la somma al mio ospite, e il dì seguente lo scellerato s’invola. Eccomi in imbroglio: mio fratello va in traccia di lui per ammazzarlo, egli però era felicemente fuori di pericolo. Tutte le persone rimaste vittima degl’inganni del Raguseo si adunarono in casa nostra; noi intanto eravamo forzati a soffocare i giusti nostri lamenti, alfine di evitare l’indignazione del governo, e le risate del pubblico. Qual partito prendere? Il ladro era partito di Venezia il 15 settembre 1741. Io imbarcai con mia moglie per Bologna ai 18.