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capitolo xlv 125


soggiorno in Bologna, ed essendo stato fissato da una compagnia di comici che era in Rimini al servizio del campo spagnuolo, prossimo a mettersi in viaggio, venne a far meco le sue dipartenze. — Voi dunque partite per Rimini, io gli dissi, ed io vado a Modena. — E che cosa mai, egli riprese, andate voi a fare a Modena? tutti sono in costernazione; manca il duca. — Come, manca il duca? — Sì, egli si è impegnato in una guerra rovinosa. — Lo so, ma dov’è presentemente? — Trovasi a Rimini al campo degli Spagnuoli, ove passerà tutto l’inverno. — Eccomi nel maggior rammarico; il colpo è andato a vuoto, e tutto per colpa mia, poichè ho perduto troppo tempo. — Deh venite, soggiunse il Ferramonti, venite a Rimini meco, vi assicuro, che vi troverete una compagnia comica assai buona; vi presenterò a’ miei compagni, essi debbono già conoscervi, debbono già stimarvi. Venite, venite meco, farete qualche cosa per noi. — Veramente la proposizione non mi dispiaceva, ma volevo prima sentir mia moglie; essendo essa genovese, eravamo appunto in strada per andare a rivedere i parenti; povera figliuola! era l’istessa bontà, l’istessa compiacenza, approvava sempre tutto quello che proponeva suo marito. Pago pertanto di vedermi in pace, e soddisfatto, presi coraggio per dare effetto alla mia nuova idea, onde partimmo, tre giorni dopo, in compagnia del buon vecchio veneziano. Giunti alla vista delle fortificazioni di Rimini, fummo arrestati al primo posto avanzato, e fatti scortare fino alla gran guardia. Quivi il comico fu messo in libertà sulla buona fede della dichiarazione del suo stato, ed io con la moglie fummo spediti alla corte di Modena.

Avevo conoscenza con parecchie persone d’ogni ceto, addette al servizio di S. A. S.; fui perciò bene accolto, mi fu fatta molta festa, mi si trovò un comodo appartamento, ed il giorno dopo fui presentato a questo principe, che mi ricevè con bontà, domandandomi qual fosse il motivo che mi conduceva a Rimini. Non stentai punto a dirgli la verità; ma alle parole di banca ducale, e di rendite indugiate, Sua Altezza voltò il discorso alla commedia, alle mie rappresentazioni, ai miei successi, e terminò l’udienza due minuti dopo. Vidi bene, che da questa parte non vi era nulla da sperare, onde mi rivolsi a quella dei comici, e vi trovai meglio il mio conto.

Andai a desinare in casa del direttore, e Ferramonti aveva già parlato molto di me. Vi si trovavano tutti; la prima amorosa era un’attrice eccellente, ma molto avanzata in età; bella, ma stupida e male educata. Colombina poi bruna, fresca e bizzarra, era prossima a partorire, e (sia detto fra parentesi) diventò subito mia comare. Era la servetta; e lì stava il mio forte. Tutti mi chiedevano rappresentazioni, e ciascuno avrebbe voluto essere soggetto principale; a chi dar la preferenza? mi levò d’imbroglio il signor conte di Grosberg. Questo bravo uffiziale, brigadiere dell’esercito di sua Maestà Cattolica nel reggimento delle guardie svizzere, era uno di quelli che prendeva parte più degli altri allo spettacolo; proteggeva sopra tutto l’Arlecchino, onde mi pregò di lavorare per questo personaggio, ciò che feci con molto più piacere, in quanto che era buono l’attore, e generoso il protettore. Faceva da Arlecchino il signor Bigottini, molto abile nel recitare la sua parte, ma insuperabile poi nelle metamorfosi o trasformazioni. Il signor conte di Grosberg si ricordava d’una rappresentazione dell’antica fiera di Parigi intitolata: Arlecchino imperatore nella luna. Pensava che questo argomento potesse far spiccare il suo protetto, nè aveva