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126 | parte prima |
torto. Lavorai adunque su questo titolo la composizione di mio genio, ed ebbe buon successo; ne furon tutti contenti, ed io pure. Terminò il carnevale, e si chiuse il teatro. Il signor de Gages, il quale dopo il generalissimo era il general comandante, faceva osservare a tutto l’esercito il più esatto buon ordine, e la disciplina più rigorosa: verun giuoco, verun ballo, niuna donna sospetta. Si viveva in Rimini come appunto in un convento.
Gli Spagnuoli corteggiavano le signore del paese alla maniera castigliana, ed esse avean molto caro di vedere i figli di Marte piegar le ginocchia davanti a loro. Le conversazioni erano numerose, e senza tumulto, e vi spiccava la galanteria senza scandalo. Godevo pertanto come gli altri di questa dolce calma sparsa nelle migliori case della città, facendo la mia corte alle dame con la nobile continenza degli Spagnuoli, e vedendo qualche volta la mia comare coll’allegrezza italiana. Aspettavo intanto la buona stagione per andare a Genova. Ma che traversie! che rivoluzioni! che avvenimenti! Le truppe tedesche accantonate nel bolognese fecero alcune evoluzioni che incussero timore agli Spagnuoli. Essi non eran disposti ad aspettare il nemico a piè fermo, onde secondo che i primi avanzavano verso la Romagna, gli ultimi battevano la ritirata, e andavano a spartire il loro campo, tra Pesaro e Fano. Tutti gli Spagnuoli, che si trovavano a Cesena, Cervia e Cesenatico, vennero a riunirsi in Rimini al grosso dell’esercito, onde fui obbligato a far parte del mio quartiere; ma questo non è ancor tutto, anzi non è nulla. Mio fratello, il mio amabile fratello, venne in quel tempo stesso da Venezia in compagnia di due uffiziali veneziani per proporre al signor de Gages la leva di un nuovo reggimento ove mi serbava la carica di auditore. D’avanzo avevo imparato a diffidare delle proposte, non volli neppure ascoltarle, era però necessario alloggiarli, e mantenerli. Dopo tre giorni si mosse l’esercito, e mio fratello con i suoi compagni lo seguitarono. Io rimasi in Rimini sempre più impacciato che mai. Suddito del duca di Modena e console di Genova a Venezia, essendo queste due nazioni in quella guerra del partito dei Borboni, avevo ragion di temere, che gli Austriaci non mi prendessero per un uomo sospetto. Comunicai i miei timori a persone del paese di mia conoscenza, e tutti li trovarono giusti, e mi consigliavano a partire. Ma come fare? Non vi erano cavalli, nè vetture. Tutto aveva trascinato seco l’esercito. Alcuni mercanti forestieri erano nel medesimo caso di me. Me la intesi con loro, prendemmo la parte del mare, e noleggiammo una barca per Pesaro. Il tempo era bello, ma per essere stata burrascosa la notte, il mare trovavasi tuttavia in agitazione. Le donne soffrivano molto, e la mia sputava perfin sangue, però ci fermammo alla rada della Cattolica a mezza strada del viaggio proposto, e terminammo il. cammino per terra sopra un carretto da contadini, lasciando alla guardia delle robe alcuni dei nostri servitori, che doveano riunirsi con noi in Pesaro, ove arrivammo stanchi, rotti, senza conoscenze e senza quartiere. Tutto questo era il menomo dei mali che ancora ci sovrastavano.