Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLIII
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CAPITOLO XLIII.
- Dispiacevole scoperta nel mio nuovo impiego. — Commissione difficoltosa ultimata felicemente. — Calunnie smentite. — Sospensione delle mie rendite di Modena. — Arrivo di mio fratello a Venezia. — Mutazione della compagnia di San Samuele. — Ritratto della servetta. — La donna di garbo, commedia di carattere in prosa di tre atti, e la prima scritta per intiero.
Mi trovavo ricolmato di onori, di allegrezza, e di contento; ma voi ben sapete, caro lettore, i giorni felici non durano mai lungamente per me. Quando mi fu offerto il consolato di Genova, lo accettai con riconoscenza e rispetto, senza domandare qual fosse la provvisione di tal carica. Ecco una delle solite mie sciocchezze, che non mi costò meno dell’altre.
L’unico mio pensiero pertanto fu subito quello di rendermi degno della benevolenza della Repubblica che mi onorava della sua fiducia. Presi un quartiere capace di pormi in istato di ricevere i ministri esteri, aumentai servizio, tavola, trattamento, e fui di parere di non dover far diversamente. Scrissi in capo a qualche tempo al segretario di Stato col quale ero in corrispondenza, toccandogli del mio nuovo modo di vivere. Ecco presso a poco quanto il signor segretario mi fece l’onore di comunicarmi per mia consolazione: «Il conte Tuo (mio predecessore) aveva servito la Repubblica per vent’anni senza il menomo emolumento: il Senato era di me contento, e il governo trovava giusto che io fossi ricompensato; ma per la guerra di Corsica, la Repubblica non era in istato di aggravarsi d’un dispendio, al quale aveva già desistito di pensar da lungo tempo». Che tristo annunzio per me! Il guadagno del consolato ascendeva a soli scudi cento all’anno. Ero nell’intenzione di fare i miei ringraziamenti in quell’istante; ma mi ritenne una lettera di un senator genovese, pervenutami col corriere successivo, con la quale m’incaricava di una commissione spinosa, e m’incoraggiava alla continuazione dell’esercizio della mia carica.
Un uomo incaricato d’affari della Repubblica di Genova, e che riuniva in una Corte straniera la commissione del Senato e la riscossione delle rendite assicurate in vari uffizi dai particolari, si era abusato della fiducia dei Genovesi, si era sottratto con somme considerabili, e viveva tranquillamente a Venezia. Il senatore adunque mi spediva alcune cambiali sopra il banchiere Santin Cambiasio, e carta bianca per conseguire l’arresto della persona e dei capitali del suo debitore. L’incombenza era delicata, e l’esecuzione mi pareva difficile. Ciò nonostante conoscevo bene il mio paese: in un governo ove son quasi tanti i tribunali di prima istanza, quante sono le materie sottoposte alla controversia, se l’affare lo merita, si trova facilmente la maniera di ottenere giustizia senza ledere in menoma parte la delicatezza del diritto delle genti.
Fui ascoltato, fui ben servito, il mio cliente fu di tutto indennizzato, ed il danaro e i capitali passarono dalle mie mani in quelle del signor Cambiasio a disposizione del patrizio genovese. Un affare di tal natura condotto sì bene ed ultimato così felicemente, mi procurò un infinito onore, ma la mia costellazione non indugiò a porre in azione le sue influenze per opprimermi. Nell’inventario dei capitali recuperati esistevano due scatole d’oro con diamanti, delle quali ero incaricato di procurar la vendita. Le affidai ad un sensale: questo disgraziato le impegnò ad un ebreo, lasciò la polizza del pegno, e se ne fuggì. N’ero pertanto mallevadore io, e bisognava pagarle per riaverle. Somministrò l’occorrente il signor Cambiasio a conto del senatore, ed il mio suocero pagò a Genova l’equivalente, mediante una voltura di partite riguardanti un resto di dote della sua figlia di cui mi andava debitore.
Tutti questi fatti furono contestati a Genova e a Venezia, e restarono ampiamente smentiti i discorsi tenuti sopra di me. Alcune persone di traffico irritate meco a motivo della mia rappresentazione del Mercante fallito, non cessarono di molestarmi. L’Imer, direttore della compagnia di San Samuele, era stato dichiarato procuratore del signor Berio genovese suo cognato, per ritirare la somma di mille cinquecento ducati moneta veneta. Avendo egli facoltà di sostituire altri procuratori, mi nominò in sua vece. Ritirai il danaro, spedii seicento venti ducati al signor Berio pel il canale dei signori Sembro e Simone fratelli Maruzzi banchieri, dei quali conservo ancora la ricevuta, e rimisi ogni residuo fino al totale al signor Imer, da cui ebbi una quietanza che passò per mano di notaro. Fui tacciato di aver dato altro destino a quest’ultima somma, ma non durai fatica a provare il contrario; i discorsi per altro e gli scritti di quel tempo potrebbero sussistere anche dopo la mia morte; per questo appunto ho desiderio che sussista in queste Memorie la mia difesa e la mia giustificazione. Ho un nipote del mio istesso nome; se non ho altri beni da lasciargli, goda almeno la riputazione di quello zio, che gli ha tenuto luogo di padre, e gli ha procurato un’educazione della quale ha felicemente profittato.
Non ero pertanto in acque troppo buone al principio dell’anno 1740, anzi per sopraccarico di disgrazie mi trovai privo ad un tratto della miglior parte delle mie rendite. In questo tempo era accesa la guerra tra i Francesi e gli Spagnuoli da una parte, e gli Austriaci dall’altra. Si chiamava la guerra di don Filippo, ed era inondata di truppe straniere la Lombardia per installare questo principe negli Stati di Parma e Piacenza. Il duca di Modena, unite le sue forze a quelle dei Borboni, era generalissimo del loro esercito, ed aveva sospeso il pagamento delle rendite della banca ducale, chiamate luoghi di monte, per sostener le spese della guerra. Un vuoto di tal sorte ne’ miei affari domestici terminò di pormi in costernazione, nè potevo più mantenermi nel mio stato. Presi adunque l’espediente di andare a Milano per cercar danaro a qualunque costo, per poi passare a Genova e ripetere giustizia. In conseguenza di ciò scrissi alla Repubblica, esposi la necessità di un viaggio, dimandai la permissione di mettere un altro in mia vece, ed aspettai l’assenso del Senato. In questa aspettativa, in mezzo a’ miei disgusti ed incagli, giunge da Modena mio fratello, dolente al pari di me della sospensione delle nostre rendite, ma molto più disgustato per non aver ottenuto avanzamento alcuno nella nuova promozione fatta da S. A. S. nelle truppe. Aveva con fermo proposito abbandonato il servizio, e se ne veniva a godere la sua pace a mie spese.
Da un’altra parte i comici mi domandavano nuove composizioni. Era l’unica mia consolazione; ma partito il Sacchi, era andata con lui la metà dei suoi compagni, e si era ritirato anche il Pantalone Golinetti, sicchè gli attori più essenziali erano affatto nuovi per me. Studiando fra i medesimi il soggetto che più d’ogni altro poteva convenirmi, l’antica predilezione per le servette mi determinò per la signora Baccherini, la quale era subentrata in tale ufficio alla sorella del Sacchi.
Essa era una giovine fiorentina bellissima, molto allegra e sommamente sfarzosa; di una struttura tonda e grassoccia, carnagione bianca, occhi neri, molta vivacità e una pronunzia graziosissima. Non possedeva, è vero, l’ingegno e l’esperienza di chi l’aveva preceduta, ma si scorgevano in lei disposizioni felici, da esigere soltanto esercizio e tempo per giungere alla perfezione. Ci unimmo dunque in buona amicizia, avendo bisogno l’uno dell’altro; io lavorava per la sua gloria, essa dissipava il mio mal umore. È uso inveterato fra i comici italiani, che le servette diano ogni anno e in più volte rappresentazioni che si chiamano trasformazioni, come lo Spirito folletto, la Serva incantatrice, ed altre di simil genere, nelle quali comparendo l’attrice in differenti forme, muta spesso abiti, rappresenta diversi personaggi, e parla varie lingue. Fra quaranta o cinquanta servette, che potrei nominare, non ve n’erano due che fossero tollerabili. I loro caratteri comparivano troppo artificiali, caricate le maniere, i linguaggi balbettati, difettosa l’illusione, e doveva appunto esser così; laddove, affinchè una donna sostenga piacevolmente tutte queste metamorfosi, sarebbe necessario che realmente avesse in sè stessa quella grazia che si finge nella rappresentazione. La bella fiorentina moriva di voglia di far mostra del suo visetto sotto differenti abbigliature. Corressi la sua follia, e procurai nel tempo istesso di contentarla.
Ideai una commedia nella quale, senza variar linguaggio e vestiario, potè rappresentare molti personaggi, cosa non molto difficile per una donna, e molto meno poi per una donna di spirito. Questa rappresentazione aveva per titolo: La donna di garbo. Piacque infinitamente quando se ne fece la lettura, e la Baccherini n’era incantata; ma gli spettacoli erano per finire in Venezia, e la compagnia doveva andare a Genova per passarvi la primavera: là appunto doveva esser recitata per la prima volta. Mi determinai adunque di trovarmi ancor io alla prima sua recita; ma diventai ad un tratto lo scherzo della fortuna. Una serie di singolari avvenimenti sconvolse le mie idee, nè potei veder recitare la mia composizione che quattro anni dopo.