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122 parte prima


Non sapevo se ciò proveniva da collera o allegrezza; quando, fissandomi con aria sdegnosa, — Per bacco! mi dice: fratello, non vi burlerete sempre di me! — Su qual proposito? gli risposi. — Io non so far versi, egli riprese: ciascuno per altro ha la sua abilità; ed or ora ho fatto una grande scoperta. — Se questa è per esservi utile, soggiunsi, ne avrò estremo piacere. — Sì, utile ed onorevole per me, e molto più onorevole ed utile per voi. — Per me? — Sì, ho fatto recentemente la conoscenza di un capitano raguso, d’un uomo... d’un uomo insomma che non ha l’eguale. Egli è in corrispondenza colle principali Corti d’Europa, ed ha commissioni da far spavento; adesso è incaricato di arruolare per un nuovo reggimento di due mila schiavoni. Ma, oh cielo! Se il governo di Venezia penetrasse mai una tal cosa, saremmo perduti. Fratel mio... Fratel mio... mi son lasciato scappare la parola di bocca... Voi conoscete l’importanza della circospezione. — Ero per fargli alcune riflessioni. — Ascoltatemi, riprese subito interrompendomi, si tratta per me di un posto di capitano: ho servito, come sapete, in Dalmazia, lo sa pure il mio amico, anzi ha conosciuto a Zara il mio zio Visinoni, insomma, mi destina una compagnia. Per voi poi, egli proseguì, per voi poi, fratel mio, ha in vista un’altra cosa. — Per me? Che diavolo vuol far di me? — Vi conosce per fama, e vi stima; dovete essere auditore; sarete il gran giudice del reggimento. — Io? — Sì, voi. Entra in quell’istante il servitore e ci avvisa che s’era messo in tavola. — Va al diavolo, rispose mio fratello, abbiamo degli affari, non vedi? lasciaci in pace. — Ma non potremmo noi, ripresi allora, differire il discorso al dopo desinare? — Niente affatto: ora è necessario aspettare. — Perchè? — Perchè è per venire il signor capitano. — Che, lo avete invitato? — Trovate forse mal fatto l’essermi presa la libertà di invitare un amico? — Il signor capitano è vostro amico? — Non ne dubito. — Ma come? avete fatto con lui appena conoscenza, ed è già vostro amico? — Oh! noi altri militari non siamo cortigiani: ci conosciamo di primo acchito; stringono la nostra lega l’onore e la gloria, e diveniamo amici un momento dopo. — Arriva mia moglie, e ci prega di terminare. — Oh! Dio! grida mio fratello, siete, signora mia, molto impaziente. — Non son io, essa rispose, è vostra madre che s’impazientisce. — Mia madre... Mia madre... Desini dunque, e vada a letto. — Il vostro parlare, dissi allora, puzza molto, fratel mio, di polvere da schioppo. — È vero, è vero, me ne dispiace, ma il capitano non dovrebbe indugiar di più. — Si sente picchiare, ed è il signor capitano: un mare di complimenti, un mare di scuse; finalmente eccoci a desinare. Quest’uomo aveva più ciera di cortigiano che di militare. Scaltro, affabile, manieroso, di viso pallido e lungo, naso aquilino ed occhi tondi e verdastri, molto galante, attento in servir le signore, diceva cose morali alle vecchie, e teneva discorsi piacevoli colle giovani, senza che le belle istoriette gl’impedissero di ben mangiare. Si prese il caffè senza alzarci da tavola, e intanto mio fratello mi rinfrescava la memoria di tutto quel resto di bottiglie che avevo, per farne un dono al suo amico. Finalmente il Raguseo, mio fratello ed io, andammo a chiuderci nel mio studio.

Siccome la raccomandazione avuta dal fratello non mi dava una idea vantaggiosa in favore dell’uomo a me ignoto, non mancando costui di scaltrezza e previsione, mi espose in un rapidissimo ed elegantissimo preambolo nome, patria, condizione, titoli, prodezze; dando fine col pormi sott’occhio le patenti scritte in lingua italiana