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120 parte prima


cale, chiamate luoghi di monte, per sostener le spese della guerra. Un vuoto di tal sorte ne’ miei affari domestici terminò di pormi in costernazione, nè potevo più mantenermi nel mio stato. Presi adunque l’espediente di andare a Milano per cercar danaro a qualunque costo, per poi passare a Genova e ripetere giustizia. In conseguenza di ciò scrissi alla Repubblica, esposi la necessità di un viaggio, dimandai la permissione di mettere un altro in mia vece, ed aspettai l’assenso del Senato. In questa aspettativa, in mezzo a’ miei disgusti ed incagli, giunge da Modena mio fratello, dolente al pari di me della sospensione delle nostre rendite, ma molto più disgustato per non aver ottenuto avanzamento alcuno nella nuova promozione fatta da S. A. S. nelle truppe. Aveva con fermo proposito abbandonato il servizio, e se ne veniva a godere la sua pace a mie spese.

Da un’altra parte i comici mi domandavano nuove composizioni. Era l’unica mia consolazione; ma partito il Sacchi, era andata con lui la metà dei suoi compagni, e si era ritirato anche il Pantalone Golinetti, sicchè gli attori più essenziali erano affatto nuovi per me. Studiando fra i medesimi il soggetto che più d’ogni altro poteva convenirmi, l’antica predilezione per le servette mi determinò per la signora Baccherini, la quale era subentrata in tale ufficio alla sorella del Sacchi.

Essa era una giovine fiorentina bellissima, molto allegra e sommamente sfarzosa; di una struttura tonda e grassoccia, carnagione bianca, occhi neri, molta vivacità e una pronunzia graziosissima. Non possedeva, è vero, l’ingegno e l’esperienza di chi l’aveva preceduta, ma si scorgevano in lei disposizioni felici, da esigere soltanto esercizio e tempo per giungere alla perfezione. Ci unimmo dunque in buona amicizia, avendo bisogno l’uno dell’altro; io lavorava per la sua gloria, essa dissipava il mio mal umore. È uso inveterato fra i comici italiani, che le servette diano ogni anno e in più volte rappresentazioni che si chiamano trasformazioni, come lo Spirito folletto, la Serva incantatrice, ed altre di simil genere, nelle quali comparendo l’attrice in differenti forme, muta spesso abiti, rappresenta diversi personaggi, e parla varie lingue. Fra quaranta o cinquanta servette, che potrei nominare, non ve n’erano due che fossero tollerabili. I loro caratteri comparivano troppo artificiali, caricate le maniere, i linguaggi balbettati, difettosa l’illusione, e doveva appunto esser così; laddove, affinchè una donna sostenga piacevolmente tutte queste metamorfosi, sarebbe necessario che realmente avesse in sè stessa quella grazia che si finge nella rappresentazione. La bella fiorentina moriva di voglia di far mostra del suo visetto sotto differenti abbigliature. Corressi la sua follia, e procurai nel tempo istesso di contentarla.

Ideai una commedia nella quale, senza variar linguaggio e vestiario, potè rappresentare molti personaggi, cosa non molto difficile per una donna, e molto meno poi per una donna di spirito. Questa rappresentazione aveva per titolo: La donna di garbo. Piacque infinitamente quando se ne fece la lettura, e la Baccherini n’era incantata; ma gli spettacoli erano per finire in Venezia, e la compagnia doveva andare a Genova per passarvi la primavera: là appunto doveva esser recitata per la prima volta. Mi determinai adunque di trovarmi ancor io alla prima sua recita; ma diventai ad un tratto lo scherzo della fortuna. Una serie di singolari avvenimenti sconvolse le mie idee, nè potei veder recitare la mia composizione che quattro anni dopo.