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118 | parte prima |
o si lasciassero arrestare, non dovevano la loro rovina che all’ambizione, alla dissolutezza, alla cattiva condotta, e partendo dall’emblema della commedia: ridendo castigat mores, fui di parere che anche il teatro potesse erigersi in liceo ad oggetto di prevenir gli abusi, ed impedirne le conseguenze. Non mi limito in questa rappresentazione ai soli mercanti che falliscono, ma fo conoscere nel tempo istesso anche quelli che contribuiscono di più ai loro disordini, e mi stendo fino ai legali, i quali col gettar talvolta della polvere negli occhi ai poveri creditori, danno agio ai falliti fraudolenti di rendere i fallimenti più lucrosi ed impuniti.
Non so se questa mia composizione abbia prodotto qualche conversione; so bensì che è stata applaudita universalmente, ed i negozianti istessi, che avrei appunto dovuto temere, furono i primi a dimostrare la loro contentezza, alcuni con tutto il sentimento, gli altri per politica. Fu pertanto recitato il Fallimento senza interruzione per tutto il resto del carnevale, e con esso si chiuse l’anno comico 1740. Vi erano in questa commedia molte più scene scritte, che nelle due precedenti; mi avvicinavo adunque adagio adagio alla libertà di scrivere addirittura per intiero le mie composizioni, nè tardai molto ad arrivarvi, malgrado le maschere che m’infastidivano.
CAPITOLO XLIII.
- Dispiacevole scoperta nel mio nuovo impiego. — Commissione difficoltosa ultimata felicemente. — Calunnie smentite. — Sospensione delle mie rendite di Modena. — Arrivo di mio fratello a Venezia. — Mutazione della compagnia di San Samuele. — Ritratto della servetta. — La donna di garbo, commedia di carattere in prosa di tre atti, e la prima scritta per intiero.
Mi trovavo ricolmato di onori, di allegrezza, e di contento; ma voi ben sapete, caro lettore, i giorni felici non durano mai lungamente per me. Quando mi fu offerto il consolato di Genova, lo accettai con riconoscenza e rispetto, senza domandare qual fosse la provvisione di tal carica. Ecco una delle solite mie sciocchezze, che non mi costò meno dell’altre.
L’unico mio pensiero pertanto fu subito quello di rendermi degno della benevolenza della Repubblica che mi onorava della sua fiducia. Presi un quartiere capace di pormi in istato di ricevere i ministri esteri, aumentai servizio, tavola, trattamento, e fui di parere di non dover far diversamente. Scrissi in capo a qualche tempo al segretario di Stato col quale ero in corrispondenza, toccandogli del mio nuovo modo di vivere. Ecco presso a poco quanto il signor segretario mi fece l’onore di comunicarmi per mia consolazione: «Il conte Tuo (mio predecessore) aveva servito la Repubblica per vent’anni senza il menomo emolumento: il Senato era di me contento, e il governo trovava giusto che io fossi ricompensato; ma per la guerra di Corsica, la Repubblica non era in istato di aggravarsi d’un dispendio, al quale aveva già desistito di pensar da lungo tempo». Che tristo annunzio per me! Il guadagno del consolato ascendeva a soli scudi cento all’anno. Ero nell’intenzione di fare i miei ringraziamenti in quell’istante; ma mi ritenne una lettera di un senator genovese, pervenutami col corriere successivo, con la quale m’incaricava di una commissione spinosa, e m’incoraggiava alla continuazione dell’esercizio della mia carica.