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capitolo xliii 119


Un uomo incaricato d’affari della Repubblica di Genova, e che riuniva in una Corte straniera la commissione del Senato e la riscossione delle rendite assicurate in vari uffizi dai particolari, si era abusato della fiducia dei Genovesi, si era sottratto con somme considerabili, e viveva tranquillamente a Venezia. Il senatore adunque mi spediva alcune cambiali sopra il banchiere Santin Cambiasio, e carta bianca per conseguire l’arresto della persona e dei capitali del suo debitore. L’incombenza era delicata, e l’esecuzione mi pareva difficile. Ciò nonostante conoscevo bene il mio paese: in un governo ove son quasi tanti i tribunali di prima istanza, quante sono le materie sottoposte alla controversia, se l’affare lo merita, si trova facilmente la maniera di ottenere giustizia senza ledere in menoma parte la delicatezza del diritto delle genti.

Fui ascoltato, fui ben servito, il mio cliente fu di tutto indennizzato, ed il danaro e i capitali passarono dalle mie mani in quelle del signor Cambiasio a disposizione del patrizio genovese. Un affare di tal natura condotto sì bene ed ultimato così felicemente, mi procurò un infinito onore, ma la mia costellazione non indugiò a porre in azione le sue influenze per opprimermi. Nell’inventario dei capitali recuperati esistevano due scatole d’oro con diamanti, delle quali ero incaricato di procurar la vendita. Le affidai ad un sensale: questo disgraziato le impegnò ad un ebreo, lasciò la polizza del pegno, e se ne fuggì. N’ero pertanto mallevadore io, e bisognava pagarle per riaverle. Somministrò l’occorrente il signor Cambiasio a conto del senatore, ed il mio suocero pagò a Genova l’equivalente, mediante una voltura di partite riguardanti un resto di dote della sua figlia di cui mi andava debitore.

Tutti questi fatti furono contestati a Genova e a Venezia, e restarono ampiamente smentiti i discorsi tenuti sopra di me. Alcune persone di traffico irritate meco a motivo della mia rappresentazione del Mercante fallito, non cessarono di molestarmi. L’Imer, direttore della compagnia di San Samuele, era stato dichiarato procuratore del signor Berio genovese suo cognato, per ritirare la somma di mille cinquecento ducati moneta veneta. Avendo egli facoltà di sostituire altri procuratori, mi nominò in sua vece. Ritirai il danaro, spedii seicento venti ducati al signor Berio pel il canale dei signori Sembro e Simone fratelli Maruzzi banchieri, dei quali conservo ancora la ricevuta, e rimisi ogni residuo fino al totale al signor Imer, da cui ebbi una quietanza che passò per mano di notaro. Fui tacciato di aver dato altro destino a quest’ultima somma, ma non durai fatica a provare il contrario; i discorsi per altro e gli scritti di quel tempo potrebbero sussistere anche dopo la mia morte; per questo appunto ho desiderio che sussista in queste Memorie la mia difesa e la mia giustificazione. Ho un nipote del mio istesso nome; se non ho altri beni da lasciargli, goda almeno la riputazione di quello zio, che gli ha tenuto luogo di padre, e gli ha procurato un’educazione della quale ha felicemente profittato.

Non ero pertanto in acque troppo buone al principio dell’anno 1740, anzi per sopraccarico di disgrazie mi trovai privo ad un tratto della miglior parte delle mie rendite. In questo tempo era accesa la guerra tra i Francesi e gli Spagnuoli da una parte, e gli Austriaci dall’altra. Si chiamava la guerra di don Filippo, ed era inondata di truppe straniere la Lombardia per installare questo principe negli Stati di Parma e Piacenza. Il duca di Modena, unite le sue forze a quelle dei Borboni, era generalissimo del loro esercito, ed aveva sospeso il pagamento delle rendite della banca du-