Memorie autobiografiche/Primo Periodo/XXXI
Questo testo è completo. |
◄ | Primo Periodo - XXX | Primo Periodo - XXXII | ► |
Capitolo XXXI.
Combattimento di due giorni con Brown.
Noi procedevamo quindi nell’arduo nostro viaggio nel fiume. Il nemico svogliossi di mettere ostacoli, e giungemmo dopo alcuni arenamenti, massime della Costitizione, sino a Cavallo-Guatià (Cavallo Bianco), ove si congiunse la flottiglia correntina, composta di due lancioni ed una balandra armati in guerra. Essa ci traeva alcuni viveri freschi, e la nostra condizione era perciò alquanto migliorata. Avevamo buoni e fidati pratici, ed un rinforzo, benché piccolo, assai giovevole, massime sul morale della gente.
Pervenuti così fino alla costa Brava, fummo obbligati di fermarci, per motivo della mancanza di profondità nel fiume, la cui differenza col pescante della Costituzione era di quattro palmi, e tale inconveniente principiò ad insospettirmi alquanto sull’esito della spedizione.
Io non potevo ignorare che il nemico avrebbe tentato il possibile per inutilizzare l’ardito e temerario tentativo, perchè giunti noi a Corrientes, immenso sarebbe stato il pregiudizio recato al nemico col dominio di un fiume come l’alto Paranà, in una posizione intermedia tra le provincie dell’interno della Repubblica Argentina, e il Paraguay. Sarebbe stato pure un foco da corsari da infestare e distruggere molta parte del commercio nemico.
A tal uopo nulla si trascurò per la perdizione nostra, ed in ciò non poco contribuì la scarsezza d’acqua nel fiume, che a detta dei pratici non s’era veduta tale da mezzo secolo; relazione confermatami dallo stesso Perré governatore di Corrientes. Non essendo possibile di oltrepassare, io decisi metter la flottiglia in istato della maggior resistenza, aspettandomi un giorno l’altro alla comparsa dell’ammiraglio Brown, il di cui inganno non poteva poi durar tanto tempo.
Dalla sponda sinistra del Paranà, al disotto del banco che e’ impediva di progredire avanti, in un angolo ove esisteva sufficiente profondità dell’acqua vicino alla costa, io tirai una linea di legni principiando da un yacht mercantile, su cui feci collocare quattro cannoni; il Pereira in mezzo e la Costituzione all’ala destra, formando così una perpendicolare alla direzione del fiume, infilandolo colla batteria sinistra della corvetta, che montava più pezzi e di maggior portata, ed opponendo verso il nemico che doveva comparire da valle tutta la forza possibile.
Tale disposizione ci costò fatica per motivo della corrente, che benché poca in quel punto da noi scelto, non mancava di farci impiegare tutte le catene, ancore e gomene per ormeggiarvi i legni, massime la Costituzione che calava diciotto piedi.
Non terminati ancora erano i nostri lavori d’imbossaggio che comparve il nemico in numero di sette legni. Era superiore d’assai alle nostre forze ed in situazione da poter ricevere a piacimento ogni qualunque rinforzo e vettovaglie. Noi, non solo lontani da Corrientes, unico paese che ci poteva soccorrere, ma nella quasi certezza del nessun ausilio, come lo proveranno i fatti. Eppure bisognava combattere anche colla certezza di soccombere, almeno per l’onore delle armi. E combattemmo!
Il nemico capitanato dal generale Brown (la prima celebrità marittima dell’America meridionale, ed a giusto titolo, avendo comandato la squadra di Buenos-Ayres sino dal tempo della guerra d’indipendenza contro la dominazione spagnuola), il nemico, dico, procedeva contro di noi colla fiducia della sua potenza: mi pare fosse il 15 giugno 1842. Il vento era favorevole al nemico in quel giorno, ma poco, ed abbisognava egli pure di tonneggi per venire avanti seguendo la sponda sinistra del fiume. La destra era impraticabile a legni grandi per bassi fondi. Siccome noi dominavamo la sinistra sponda, sulla quale appoggiavamo il fianco sinistro della nostra linea, si sbarcarono parte degli equipaggi e truppa di marina, non necessari a bordo, per disputare palmo a palmo il tonneggio a cui era obbligato il nemico. I nostri di terra si batterono valorosamente in quel conflitto e ritardarono di molto il progresso del nemico; ma questi avendo sbarcato sulla stessa sponda cinquecento uomini di fanteria, la superiorità del numero prevalse e furono obbligati i nostri a ripiegarsi sotto la protezione della flottiglia. Il maggiore Fedro Rodriguez, che comandava la forza nostra di sbarco, pugnò in quel giorno con tutta la perizia e il valore immaginabili. Egli collocò gli antiposti verso sera sulla costa, e così si rimase tutta la notte preparandosi da ambe le parti al combattimento per il giorno seguente.
Il sole del giorno 16 non s’era alzato ancora che il nemico principiava il suo cannoneggiamento su di noi con tutte le forze che aveva potute collocare al fronte durante la notte. Io avrei desiderato si fosse il nemico maggiormente avvicinato, poiché solo i nostri pezzi del centro erano di lunga portata e capaci di danneggiarlo; il resto, ed eran la maggior parte, eran pezzi corti ed incapaci di raggiungerlo alla distanza in cui s’era tenuto, e si lasciavano quindi inoperosi. Il vecchio ammiraglio inglese conosceva benissimo la portata delle nostre artiglierie e l’inferiorità marcata che avevano a paragone delle sue. Egli peciò sacrificando lo spettacolo brillante d’un combattimento a mitraglia e corpo a corpo, si attenne al sodo profittando della superiorità di portata de’ suoi cannoni e rimase perciò a grande distanza, ciò che a noi era poco conveniente.
Si combattè senza interruzione sino a notte chiusa e da ambe le parti col maggiore accanimento. La prima vittima a bordo della Costituzione fu ancora un ufficiale italiano di molto valore: Giuseppe Borzone, giovane di bellissime speranze; ed io non potei occuparmi de’ suoi resti per l’infierire della pugna.
Non furono pochi i danni d’ambe le parti, tanto che i nostri legni erano ridotti a carcasse. La corvetta, ad onta non si tralasciasse di turare i buchi delle palle, aveva aperto acqua al punto che difficilmente poteva vincersi, pompando senza posa ed impiegandovi per turno tutta la gente.
Il comandante del Pereira era morto in un’arditissima impresa per terra, contro i legni nemici. Io perdevo in lui il migliore e più valoroso dei compagni.
Molti erano i morti, più assai i feriti; il rimanente della gente, spossatissima, non poteva aver riposo per l’acqua soverchiante nella stiva. Eppure v’era polvere ancora, v’erano proiettili a bordo, e bisognava combattere, non per vincere, non per salvarci, ma per l’onore. L’onore! mi vien da ridere, quando io penso all’onore del soldato, ma di disprezzo! massime nel genere dell’onore dei Borbonici, degli Spagnuoli, Austriaci, Francesi quando assaltavano, come assaltano gli assassini sulla strada i poveri viandanti. L’onore di sgozzare dei conterranei gli uni, dei correligionari politici gli altri, mentre un mostro, una prostituta, un discolo scettrato se la godono e se la ridono sotto i baffi tra le luride gozzoviglie di Napoli, Vienna, Madrid e Parigi.
Noi dunque combattevamo per l’onor solo, e codesto era almeno conforme ai dettami della coscienza, giacché si pugnava per un popolo contro due tiranni; e si combatteva per l’onore a seicento miglia da Montevideo, con nemici da tutte le parti, dopo una quantità di combattimenti, privazioni, disagi, con la quasi certezza di perderci tutti.
Intanto Vidal, ministro generale della Repubblica, accumulava dobloni, per servirsene in scarrozzate ed in splendide comparse nelle prime capitali d’Europa. Ed il popolo? Pare creato a pascolo di tanta canaglia: Malatesta Baglioni ed imperatori o re per comandarlo o reggerlo. Preti o dottrinari per ingannarlo!
Ecco l’onore, la libertà, la giustizia, le leggi! Ecco il mondo! Ecco a profitto di chi suda e muore di fame la plebe! Ecco a profitto di chi sprecano la vita innumerevoli generosi Italiani gettati sulla terra straniera dalle sciagure della patria nostra.
Colombo inceppato! Castelli decapitato sulla piazza di Buenos-Ayres! Borso di Carminati fucilato in Spagna! Che uomini, che servigi resi allo straniero e con che ingratitudine pagati! Lo straniero le di cui simpatie si sono manifestate or ora (1849), o Roma! allorquando la veneranda tua cervice innalzavasi un momento dal letame obbrobrioso, ove ti mantengono le sconoscenti tue alunne, dopo d’esser state da te strappate dalla barbarie delle foreste. madre, o grande istitutrice e donna delle Nazioni! Eppur tremarono nello scuoterti le chiome e fu loro d’uopo la frode, le zizzanie, lo spionaggio sfrontato dei sacerdoti dell’inferno, per abbassarti. Dunque sei grande ancora Italia! Dunque il giorno che una voce gagliarda di redenzione possa percuotere l’orecchio dei tuoi figli. in quel giorno sfumeranno gli affamati e codardi avvoltoi che ti divoran le viscere!
Nella notte dal 16 al 17 tutta la gente fu occupata a preparare le cartuccie tutte consumate, a tagliare catene per supplire alle mancanti palle, e a continuamente pompare l’acqua soverchiante.
Manuel Rodriguez, quello stesso ufficiale catalano salvatosi meco dal naufragio del Rio Pardo sulla costa di Santa Caterina, fu occupato assieme ad un pugno dei migliori ad assestare alcuni legni mercantili a guisa di brulotti, colla maggior quantità possibile di materie combustibili, e quando furono pronti, verso la mezzanotte, si rimorchiarono in direzione del nemico. Tale espediente non mancò d’incomodarlo tutta la notte, ma non ebbe l’effetto che me ne aspettavo; era la gente sommamente stanca, e ciò fu il principale motivo del poco successo.
Tra i contrattempi di quella sventurata notte, il più che mi afflisse fu la diserzione della squadriglia correntina. Villegas, il comandante di quella, simile a tanti altri millantatori da me riconosciuti per tali nella calma e nell’orgia, s’intimorì talmente all’avvicinarsi del pericolo, da risolversi al più degradante ed ignominioso dei delitti: la diserzione in presenza al nemico. Egli poco potea servirmi in un combattimento a lunga portata, essendo i suoi pezzi troppo piccoli, ma il suo aiuto poteva esser grande dovendo ricevere o dare un arrembaggio, giacche il suo equipaggio era composto di gioventù animosa. Poi pratico egli stesso, ed avendo buoni pratici del fiume a bordo, mi era molto giovevole; prezioso infine mi sarebbe stato dopo la catastrofe, per salvare i feriti e fare una ritirata men disastrosa.
Fin dal principio del combattimento io avevo veduto il Villegas impaurito, e gli ordinai perciò di collocarsi dietro la nostra linea, in posizione da non poter esser colpito dai proiettili nemici, e sotto la di lui vigilanza avevo fatto collocare un legno mercantile che dovea servir da ospedale. Verso sera mi fece dire che cambiava di posizione, non ricordo per qual motivo o pretesto. Abbisognando nella notte della cooperazione sua nel lavoro dei brulotti, io lo feci chiamare, ed ebbi la desolante notizia che in nessuna parte si trovava. Non volli crederlo capace di tanto tradimento, ed andai io stesso con leggero palischermo per assicurarmi del fatto. Non trovandolo, mi avanzai alcune miglia verso Corrientes, ma indarno: il codardo ci aveva fuggiti e traditi. Me ne tornai coll’anima rammaricata!
Ben giusto era il mio rammarico, poiché la maggior parte delle piccola barche nostre erano state distrutte nel servizio durante il combattimento. Io contavo quindi sui legni correntini per l’inevitabile ritirata, onde poter salvare i molti nostri feriti ed imbarcarvi i viveri necessari per tutti, trovandoci molto distanti ancora dall’abitata frontiera di Corrientes. L’ultime speranze mi svanivano colla miserabile defezione di quei nostri alleati! La defezione all’ora del pericolo è il più nefando di tutti i delitti.
Io tornavo a bordo, e non era lontana l’alba. Bisognava combattere, e non vedevo intorno a me altro che gente sdraiata e sopraffatta dalla fatica, non udivo altro suono, altro rumore che le lamentazioni strazianti dei disgraziati feriti, non ancora trasportati all’ospedale, incapace di contenerne tanti! Io davo la sveglia ed ordinavo si riunisse la gente: e dall’alto di una pompa dirigevo ad essa alcune parole di conforto e di eccitamento. Non furono vane le mie parole, e trovai nell’animo de’ miei rifiniti compagni tanta risoluzione da edificarmi e persuadermi che l’onore almeno si voleva salvo. Unanime grido di battaglia fu ripetuto da quei generosi, e ognuno fu al suo posto.
Non era ancor ben chiaro, che già ricominciava la pugna; ma se nel giorno anteriore sembrava il vantaggio da parte nostra, nel secondo scorgevasi indubitatamente aver noi la peggio. Le nuove nostre cartuccie erano di polvere inferiore, le palle di calibro terminate e supplite da altre minori, e perciò inesattezza nei tiri, massime nei pezzi da diciotto di lunga portata, collocati nel centro della batteria della Costitizione, e nei due rotatori a bordo al Pereira che tanto danno avevano recato al nemico il giorno prima. Si erano bensì tagliate delle catene nella notte per servir da proiettili, ma anche questi, che avrebbero potuto servire da vicino, erano inutili da lontano. Il nemico scorgeva più scemi d’assai i nostri tiri, poi era informato della situazione nostra dai disertori che non ne erano mancati, profittando del nostro contatto colla sponda. Quindi egli era sempre più imbaldanzito, ed aveva per gli stessi motivi portato tutti i suoi legni in linea, ciò che non avea potuto eseguire nel giorno antecedente, impedito dai nostri fuochi superiori. Migliorava ad ogni momento la condizione del nemico, e peggiorava la nostra. In fine bisognava pensare alla ritirata, non dei legni, che era impossibile moverli da quel punto essendo in sfasciume, oltre la mancanza d’acqua nel fiume, e la maggior parte dei cordami in pezzi. Il Fereira fu un momento oggetto d’investigazione per conoscere se sarebbe atto a mettere alla vela, ma fu riconosciuto incapacissimo. La sola goletta Procida potè salvarsi con parte dei feriti e qualche materiale.
Conveniva quindi limitarsi a salvare le reliquie del personale e incendiare la flottiglia. A tal uopo ordinai si sbarcasse il resto de’ feriti in alcune piccole rimanenti barche, con le armi minute, le munizioni ed i viveri che capir potevano in quelle. Intanto continuava il combattimento, abbenchè affievolito di molto per parte nostra, e più gagliardo assai dalla parte contraria, e preparavansi pure nello stesso tempo i fuochi ed i conduttori per l’incendio dei legni.
Qui mi convien narrare un episodio ben desolante, cagionato dall’eccesso delle bevande spiritose. Negli equipaggi da me comandati vi era gente d’ogni nazionalità. Gli stranieri eran per la maggior parte marini e quasi tutti disertori da bastimenti da guerra, e questi, devo confessarlo, erano i meno discoli. Circa agli Americani tutti quanti quasi erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidii. Dimodochè essi erano veri cavalli sfrenati, e vi voleva tutto il rigore di cui era capace un legno da guerra per mantenerli all’ordine. Solo in un giorno di pugna tutto codesto miscuglio di gente era disciplinata, e si battevano come leoni. Ora per fare l’incendio più efficace eransi riuniti nella stiva mucchi di oggetti combustibili, e su di questi spargevansi una quantità di botti di acquavite che avean fatto parte delle provviste. Ma sventuratamente quelli uomini, assuefatti a vivere con una piccola razione spiritosa, trovandosi con un’abbondanza spropositata di tali spiriti, se ne ubbriacarono in modo da essere impossibilitati a moversi.
Fu quello uno spettacolo ben doloroso: trovarsi nell’imperiosa necessità di dover abbandonare dei prodi e sventurati uomini in preda alle fiamme. Io feci il possibile, impegnando i loro compagni un po’ meno ebbri a non abbandonarli, ed io stesso sino all’ultimo momento ne colsi quanti potei, caricandoli sulle mie spalle e ponendoli in salvo. Sventuratamente però alcuni volarono coi frantumi delle navi.
In certi conflitti ebbi il disgusto di vedere anche degli ufficiali in ebbrezza, probabilmente per farsi coraggio. E se tale stato degradante nausea in un individuo qualunque di bassa forza, in un ufficiale è veramente ignominioso!
Tutto essendo preparato, si appiccò il fuoco, e sbarcai accompagnato dai pochi individui rimasti meco sino all’ultimo. Il nemico si accorse, come era naturale, dello sbarco nostro e del nostro movimento in ritirata. Egli fece marciare ad inseguirci tutta la sua fanteria, in numero di circa cinquecento uomini. Noi eravamo disposti a combattere comunque, ma ormai disugualissima sarebbe riuscita la pugna, sia per la nostra inferiorità numerica, sia per la maggior pratica della fanteria nemica, sia infine per lo stato nostro delle armi e della gente. Un inconveniente poi grandissimo era esser la nostra linea di ritirata tagliata a poca distanza da un fiume importante, confluente del Paranà. Noi fummo salvi dallo scoppio delle Sante Barbere della flottiglia che effettuossi in modo imponente e terribile, per cui s’intimorì il nemico, e gli vietò l’inseguimento. Fu uno spettacolo sorprendente il volare dei legni; nel sito ove permanevano, rimase il fiume liscio com’un cristallo, mentre su ambe le sponde dell’ampio fiume, cadevano i frantumi con spaventevole fracasso.