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capitolo trentesimoprimo. | 111 |
e sventurati uomini in preda alle fiamme. Io feci il possibile, impegnando i loro compagni un po’ meno ebbri a non abbandonarli, ed io stesso sino all’ultimo momento ne colsi quanti potei, caricandoli sulle mie spalle e ponendoli in salvo. Sventuratamente però alcuni volarono coi frantumi delle navi.
In certi conflitti ebbi il disgusto di vedere anche degli ufficiali in ebbrezza, probabilmente per farsi coraggio. E se tale stato degradante nausea in un individuo qualunque di bassa forza, in un ufficiale è veramente ignominioso!
Tutto essendo preparato, si appiccò il fuoco, e sbarcai accompagnato dai pochi individui rimasti meco sino all’ultimo. Il nemico si accorse, come era naturale, dello sbarco nostro e del nostro movimento in ritirata. Egli fece marciare ad inseguirci tutta la sua fanteria, in numero di circa cinquecento uomini. Noi eravamo disposti a combattere comunque, ma ormai disugualissima sarebbe riuscita la pugna, sia per la nostra inferiorità numerica, sia per la maggior pratica della fanteria nemica, sia infine per lo stato nostro delle armi e della gente. Un inconveniente poi grandissimo era esser la nostra linea di ritirata tagliata a poca distanza da un fiume importante, confluente del Paranà. Noi fummo salvi dallo scoppio delle Sante Barbere della flottiglia che effettuossi in modo imponente e terribile, per cui s’intimorì il nemico, e gli vietò l’inseguimento. Fu uno spettacolo sorprendente il volare dei legni; nel sito ove permanevano, rimase il fiume liscio com’un cristallo, mentre su ambe le sponde dell’ampio fiume, cadevano i frantumi con spaventevole fracasso.