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capitolo trentesimoprimo. | 109 |
svanivano colla miserabile defezione di quei nostri alleati! La defezione all’ora del pericolo è il più nefando di tutti i delitti.
Io tornavo a bordo, e non era lontana l’alba. Bisognava combattere, e non vedevo intorno a me altro che gente sdraiata e sopraffatta dalla fatica, non udivo altro suono, altro rumore che le lamentazioni strazianti dei disgraziati feriti, non ancora trasportati all’ospedale, incapace di contenerne tanti! Io davo la sveglia ed ordinavo si riunisse la gente: e dall’alto di una pompa dirigevo ad essa alcune parole di conforto e di eccitamento. Non furono vane le mie parole, e trovai nell’animo de’ miei rifiniti compagni tanta risoluzione da edificarmi e persuadermi che l’onore almeno si voleva salvo. Unanime grido di battaglia fu ripetuto da quei generosi, e ognuno fu al suo posto.
Non era ancor ben chiaro, che già ricominciava la pugna; ma se nel giorno anteriore sembrava il vantaggio da parte nostra, nel secondo scorgevasi indubitatamente aver noi la peggio. Le nuove nostre cartuccie erano di polvere inferiore, le palle di calibro terminate e supplite da altre minori, e perciò inesattezza nei tiri, massime nei pezzi da diciotto di lunga portata, collocati nel centro della batteria della Costitizione, e nei due rotatori a bordo al Pereira che tanto danno avevano recato al nemico il giorno prima. Si erano bensì tagliate delle catene nella notte per servir da proiettili, ma anche questi, che avrebbero potuto servire da vicino, erano inutili da lontano. Il nemico scorgeva più scemi d’assai i nostri tiri, poi era informato della situazione nostra dai disertori che non ne erano mancati, profittando del nostro contatto colla sponda. Quindi egli era sempre più imbaldanzito, ed aveva per gli stessi motivi portato tutti i suoi legni in linea, ciò che non avea potuto eseguire nel giorno antecedente, impedito dai nostri fuochi superiori. Migliorava ad ogni momento la condizione del nemico, e peggiorava la nostra. In fine bisognava pensare alla ritirata, non dei legni, che era impossibile moverli