Melmoth o l'uomo errante/Volume II/Capitolo III
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CAPITOLO III.
Ciò che egli mi aveva detto non era, che troppo vero; io era prigioniero della inquisizione, Ella è cosa fuori di dubbio che le grandi congiunture ne ispirano i sentimenti proprii per sormontarle. Più di uno sfidò la procella mentre trovavasi in balia delle onde, il quale si riempieva di spavento, se il tuono rumoreggiava, quando egli sedeva tranquillo presso il patrio focolare. Sentii la verità di questa osservazione. Io era prigioniero della inquisizione, ma sapeva, che il mio delitto, per grande che fosse, non era di quelli, che cadeva direttamente sotto la giurisdizione del suo tribunale. Non aveva giammai pronunziata una parola, che denotasse mancanza di rispetto per la Chiesa, o che esprimesse il più leggiero dubbio sugli articoli della Fede. L’assurda supposizione di magia, e di esser posseduto dallo spirito diabolico era svanita alla visita fatta dal vescovo. La mia ripugnanza per la vita del chiostro era, egli è vero, notoria, ed io ne aveva date delle prove pur troppo funeste; ma non doveva io perciò incorrere la pena di essere inquisito dal tribunale del Sant-Offizio, almeno per quanto io immaginava, nè credeva falso il mio ragionamento. Il settimo giorno dopo il ritorno della mia ragione era stato fissato pel mio interrogatorio, il quale terminò in una maniera non molto per me sfavorevole. I miei giudici deplorarono, e riprovarono per verità la mia avversione per la vita monastica, nulla però mi dissero che potesse in me suscitare un qualche particolare timore. Fui dunque allora tanto fortunato, quanto può esserlo uno, che vive nella solitudine e nella oscurità, che riposa sulla paglia, e si ciba d’acqua e di pane! Ma la quarta notte dopo il mio interrogatorio fui risvegliato da un forte chiarore, che venne a riflettere sulle mie pupille. Intimorito mi alzai a sedere sul letto, e vidi una persona, che teneva un lume, e si ritrasse indietro dal mio letto per andare ad assidersi nell’angolo più remoto della mia camera.
Quantunque io rimanessi stupefatto alla vista di una creatura umana, ebbi ciò non ostante tanta presenza di spirito da dimandare perentoriamente, chi fosse quegli, che si prendeva la libertà di entrare nella cella di un prigioniero? L’incognito rispose con un tuono di voce il più dolce, che giammai, credo, abbia risuonato dentro quelle mura, lui esser prigioniero come me, e che per una indulgenza particolare eragli stato permesso di visitarmi e che sperava... Io non potei a meno di esclamare: Ah! e si dovrà parlare di speranza in questo luogo? Egli mi indirizzò alcune altre parole di consolazione con la medesima dolcezza, e senza favellare di ciò, che poteva riguardare personalmente l’uno e l’altro; e mi dipinse la soddisfazione che proveremmo nel vederci e nel discorrere sovente insieme.
L’incognito mi visitò per più notti consecutive, ed io fui necessitato a rimarcare tre circostanze straordinarie nelle sue visite e nella sua apparenza. La prima, che egli si sforzava, per quanto egli era possibile, di nascondermi i suoi occhi: mi volgeva le spalle o assidevasi al mio fianco, mutando sovente posizione e cuoprendosi il volto con la mano. Quando qualche volta per distrazione mi guardava, io restava maravigliato dello splendore straordinario di cui brillavano i suoi sguardi. Cotesto splendore non aveva nulla di umano, e nella oscurità della mia prigione, io era obbligato a rivolgermi altrove non potendolo sopportare. La seconda circostanza straordinaria, che mi offrivano le sue visite, era, ch’egli entrava e sortiva dalla mia camera senza che nessuna cosa gli facesse resistenza. Avreste detto, signore, ch’egli possedesse la chiave della mia prigione a tutte le ore. Ma quello, che poneva il colmo alla mia maraviglia, era, che egli non solamente parlava a voce alta ed intelligibile, contro il sistema del luogo, ma ancora esprimeva liberamente l’orrore, che ispiravagli la inquisizione; il suo odio contro gli inquisitori si sfogava in termini tanto evidenti, che più di una volta egli mi fece tremare.
Mi dimenticava, signore, di parlarvi di una particolarità delle sue visite, che piuttosto che maraviglia m’ispirava terrore. Egli non cessava di parlarmi di avvenimenti e di personaggi de’ quali la sua memoria non poteva fornirgli la rimembranza. Mi è impossibile di esprimervi l’impressione che facevano sopra di me coteste allusioni continue a degli avvenimenti antichi o a delle persone, che da lungo tempo più non esistevano. La sua conversazione era ricca, varia ed istruttiva, ma egli parlava sì sovente di estinti, che io qualche volta immaginava, lui essere del loro numero. Era egli soprattutto abbondante di aneddoti, ed io, che non ne sapeva gran fatto, li ascoltava con tanto maggior compiacimento, perchè li raccontava egli con tutta la fedeltà di un testimone oculare. Quello però che sopra ogni altro mi piacque fu la descrizione delle feste brillanti della corte di Luigi XIV. E mi ricordo principalmente che una volta mi raccontò l’aneddoto conosciuto del cardinal Richelieu, il quale trovandosi col re Luigi XIII in una riunione, passò avanti al re nel momento appunto in cui fu annunziata la carrozza di sua maestà. Luigi (continuò l’incognito) disse sorridendo: sua Eminenza vuol esser sempre il primo. Il primo a servire la maestà vostra, riprese il cardinale con una presenza di spirito ammirabile; e togliendo dalle mani di un paggio, che era vicino a me, una torcia, accompagnò il re fino alla di lui carrozza.
Non potei a meno di fargli qualche osservazione sulle parole straordinarie, che gli erano sfuggite e gli dissi: Vi eravate voi? Egli mi diede una risposta ambigua, e mutando soggetto continuò a divertirmi raccontandomi molti altri curiosi aneddoti del secolo decimo settimo, del quale egli parlava con una esattezza tanto minuta, che non lasciava di esser per me un poco spaventevole. Egli mi lasciò con un grande desiderio di sè, quantunque io non possa spiegare la sensazione straordinaria, che le sue visite producevano sul mio spirito.
Pochi giorni dopo io doveva essere interrogato per la seconda volta. La sera della vigilia fui visitato da uno degli ufficiali superiori del tribunale. Io posi tanto maggiore attenzione a quello che mi disse, perchè i suoi discorsi erano molto più dettagliati ed energici, che non mi sarei aspettato dalla parte di un abitante di quella silenziosa dimora. Cotesta circostanza mi fece sospettare, che egli volesse comunicarmi qualche cosa di straordinario e non m’ingannai. Egli mi disse in termini precisi, che da qualche tempo regnava nel Sant-Uffizio un turbamento ed una inquietudine senza esempio. Erasi divulgata la voce, che un ente di figura umana era comparso nella cella di alcuno de’ prigionieri, ove esso pronunziava de’ discorsi contrarii non solo alla cattolica fede ed alla disciplina di quel luogo augusto, ma ben anco alla religione in generale, ed alla credenza in Dio ed in una vita avvenire. Aggiunse che, non ostante la più assidua vigilanza, nessuno degl’impiegati del tribunale era potuto riuscire a tener dietro a questo individuo delle visite che faceva alle celle de’ prigionieri; che le guardie erano state raddoppiate; che erano state poste in uso non solo le ordinarie, ma molte altre straordinarie precauzioni ancora; il tutto finora senza alcun frutto. Finalmente mi annunziò, che non mancherebbero d’interrogarmi su questo proposito, e forse con più istanza che io non avrei immaginato, e che riflettessi bene a ciò che dicessi: dopo di che raccomandandomi alla protezione di Dio si ritirò.
Non mi fu difficile di comprendere ciò che si trattava; ma tranquillo sulla mia innocenza in quanto al non avere in nulla cooperato a tali visite straordinarie, stetti aspettando il mio interrogatorio piuttosto con della speranza, che con timore. Dopo le interrogazioni ordinarie perchè io fossi in prigione? chi mi avesse accusato? di qual delitto io mi sentissi colpevole? se mi ricordassi di aver giammai dimostrato del disprezzo pe’ dogmi della Chiesa? ec. ec., mi furono fatte delle interrogazioni pressanti, che sembravano, avessero indirettamente rapporto coll’individuo, che mi aveva visitato: Risposi con una sincerità, che parve fare una impressione terribile su’ miei giudici. Dissi loro schiettamente che un individuo era entrato nella mia prigione. — Bisogna chiamarla una cella, m’interruppe il grande inquisitore. — Sia: nella mia cella. Cotesta persona parlò del Sant-Uffizio col più alto disprezzo, e pronunziò delle parole, che la riverenza del luogo non mi permette di ripetere. Io ebbi della pena a credere, che una tal persona avesse avuta la permissione di visitare le prigioni, voglio dire le celle, della santa inquisizione.
Quando io ebbi pronunziate queste parole, uno de’ giudici si alzò tutto tremante sulla sedia; voleva indirizzarmi la parola, ma la voce gli rimase nella strozza, gli occhi incominciarono a girargli con un moto convulsivo: tutto ad un tratto cade colpito d’apoplessia, avanti che avessero avuto il tempo di trasportarlo in un vicino appartamento. Cotesto avvenimento fece restare interrotto l’interrogatorio; fui rimandato alla mia cella, e vidi con mio rincrescimento di aver lasciata nello spirito de’ giudici una poco favorevole impressione. Dessi interpretarono questa circostanza, già straordinaria per sè stessa, nella più stravagante maniera, siccome mi accorsi nell’interrogatorio seguente.
Nella successiva notte fui visitato da uno degli inquisitori; mi descrisse egli lo aspetto atroce e ributtante sotto il quale io era comparso agli occhi de’ miei giudici fino dal primo momento del mio ingresso in quel luogo. Religioso apostata, io era stato già tenuto in sospetto di magìa nel mio convento; in un tentativo per evadermi aveva cagionata la morte di mio fratello, che io aveva indotto a secondare la mia fuga; finalmente io aveva precipitato una delle primarie famiglie del regno nella disperazione e nell’obbrobrio. Io voleva rispondere, ma egli me lo inibì dicendomi esser venuto per parlare, non per ascoltare. Egli m’informò in seguito, che quantunque fossi stato alla visita del vescovo liberato dal sospetto di aver avuto commercio con lo spirito maligno, ciò non ostante questo dubbio aveva riassunto tutta la forza all’occasione della comparsa dell’ente straordinario, della cui esistenza io non poteva dubitare, ed il quale non erasi mai presentato alle prigioni della inquisizione prima del mio ingresso. Onde doveva per necessaria conseguenza dedursi, che io era realmente la vittima del nemico del genere umano. Mi disse di seriamente riflettere al pericolo della mia situazione, e di riporre totalmente la mia confidenza in quelli, che dovevano di me profferire la sentenza, e che in fine se lo ente misterioso fosse venuto di nuovo a visitarmi fossi stato bene in ascolto per sentire ciò che le sue labbre impure avrebbero profferito, per riferire il tutto fedelmente al tribunale.
Partito che fu l’inquisitore mi posi a seriamente considerare quanto mi aveva detto; io era certo della innocenza per parte mia, ma temeva fortemente qual giro potesse prendere la mia causa. Minacciato ad un tempo dal potere della inquisizione e del demonio, risolvetti di star bene in attenzione a quello che seguirebbe nella mia cella, e non dovetti lungo tempo aspettare. La seconda notte dopo il mio interrogatorio vidi entrar di nuovo l’incognito; il mio primo moto fu di chiamare ad alta voce gli ufficiali della inquisizione: ma temendo di far peggio rimasi fermo ed immobile ad ascoltare quello che mi diceva lo sconosciuto, cui le mura della inquisizione sembrava che fossero in nulla differenti da quelle di qualunque altro aperto appartamento. Egli mi si era assiso al fianco, e con tanta tranquillità, quanto se fosse adagiato sulla più voluttuosa poltrona. I miei sentimenti, il mio spirito erano talmente agitati, che sento della difficoltà a rammemorarmi il suo discorso. Eccone un breve estratto.
Voi siete prigioniere dell’inquisizione. Il Sant-Uffizio fu stabilito senza dubbio con mire molto sapienti e che noi creature deboli e peccatrici non siamo in grado di comprendere. Ma, da quanto io ne posso giudicare, i suoi detenuti sono non solamente insensibili ai benefizii, che eglino possono ritrarre dalla vigilanza del medesimo, ma li ricevono ancora con ingratitudine. A voi, per esempio, che siete accusato di magia, di fratricidio, e di non so quanti altri delitti, la vostra salutare detenzione in questo luogo impedisce di fare degli ulteriori oltraggi alla natura, alla religione, alla società. Ebbene! scommetto che voi avete tanto poca riconoscenza per questo benefizio, che il vostro più ardente desiderio è di poter quinci fuggire il più presto possibile. In una parola, sono convinto, che il voto più ardente del vostro cuore è di non voler punto aumentare il carico delle obbligazioni, che avete verso la inquisizione, ma anzi di scemare, per quanto da voi potrà dipendere, il dolore che cotesti santi personaggi proveranno fino a tanto che voi colla vostra presenza profanerete coteste mura; e che perciò niente più desiderate, quanto di accelerare il termine che essi medesimi hanno a voi fissato. Il vostro desiderio è di fuggire, se è possibile, dalle prigioni del Sant-Uffizio.
Io non risposi neppure una parola. Questa feroce e selvaggia ironia, la sola parola di fuga m’inspirarono un terrore impossibile a descrivere. L’incognito prosegui: In quanto alla vostra fuga ne prendo io l’incarico; a me riuscirà ciò che a potere umano non potrebbe riuscire; voi però non potete ignorare quale ne sarà la difficoltà: codesta difficoltà vi spaventerà ella forse? Esitereste voi? Forse voi siete persuaso, che languendo qui nelle prigioni della inquisizione, assicurerete infallibilmente la vostra eterna salute. Non vi è orrore più assurdo, e non ostante più radicato nel cuor dell’uomo, che le sue sofferenze in questo mondo possano facilitargli la sua felicità.
All’udire tanto empie parole ruppi finalmente il silenzio per rispondergli, esser io pienamente convinto, che le sofferenze di questa vita servirebbero in parte a mitigare i castighi, che pur troppo io aveva meritati per la vita avvenire. Cominciai a confessare i miei errori, ed a raccomandarmi con tutta la energia del dolore all’onnipossente Signore. Invocai il nome del Salvatore e della sua Genitrice con le suppliche le più ardenti e la più viva divozione. Io mi era inginocchiato: quando mi alzai, e riguardai a me d’intorno l’incognito era scomparso.
Quando fui interrogato di nuovo, dopo le consuete formule incominciarono a farmi delle interrogazioni artificiose, quasi fosse stato necessario usar degli artifizii per farmi parlare d’un soggetto, intorno al quale io desiderava ardentemente di spandere il mio cuore. Dichiarai dunque senza mistero, di essere stato nuovamente visitato da quell’ente misterioso: ripetei tremando ciascuna sillaba dell’ultima nostra conferenza senza tacere gl’insulti che aveva prodigati contro il Sant-Uffizio, i suoi sarcasmi, il suo ateismo dichiarato, tutta in somma la sua diabolica conversazione. I giudici sembrarono mossi dal tuono serio, con cui loro io favellava, e non tardai a discoprire, che io era divenuto per essi un oggetto di terrore, e che mi guardavano a traverso un’atmosfera di mistero e di sospetto. Ma quanto più si sforzavano di procedere nelle loro artificiose interrogazioni, tanto più queste mi diventavano inintelligibili. Io aveva detto tutto quello, che sapeva; avrei desiderato di dir tutto, ma non era possibile dire di più, e tanto maggiore era il mio dispiacere di non poter soddisfare ai miei giudici, perchè io ignorava assolutamente cosa essi volesse sapere da me. Quando fui rinviato alla mia cella fui prevenuto con la più solenne maniera, che so io d’ora innanzi avessi trascurato di ricordarmi, e riferire tutto quello che mi avesse detto lo straniero del quale pareva che convenissero di non potere impedire le visite, doveva aspettarmi di provare tutto il rigore del Sant-Uffizio.
Io me ne ritornai alla mia stanza in uno stato d’angoscia inesprimibile: più io cercava di giustificarmi, più rassembrava colpevole. La mia sola risorsa e la mia sola consolazione furono d’obbedire strettamente agli ordini del tribunale. Vegliai tutta la notte, ma non vidi comparire l’incognito. Verso la mattina mi addormentai, ma ahimè! qual sonno spaventevole fu il mio! Io sono convinto che nessuna vittima reale abbia mai tanto sofferto nell’esser condotta al supplizio, quanto io durante quel sogno. Immaginai, che la mia sentenza fosse stata pronunziata. La campana aveva suonato: noi partivamo dalle prigioni della inquisizione. Io non mi fermerò qui a descrivervi cotesta processione, che vidi in sogno. Solo vi dico, che io vedeva tutto rappresentato con esattezza. Tutte le campane rumoreggiavano nelle mie orecchie; ma il sentimento più spaventevolmente inesplicabile era di veder passare me medesimo. Io mi vedeva, mi sentiva due volte. Non mi è possibile di darvi un’idea di cotesto orrore. Mi fecero montare sul palco; mi legarono alla mia seggiola: vidi accendere il fuoco, e ben tosto le fiamme cominciarono a farmisi sentire sotto le piante de’ piedi, ed a poco a poco salire; finalmente nella mia visione io bruciava a fuoco lento, e provava tutte le angoscie inseparabili da cotesto stato di dolori inesprimibili. Finalmente quando il mio corpo fu intieramente consumato, quando il tutto erasi ridotto ad un pugno di cenere, gettai un urlo spaventevole e mi destai. Mi trovai nel mio letto ed al mio fianco era assiso il mio tentatore. Con un impulso al quale non potei resistere, un impulso dettato dall’orrore del mio sogno mi slanciai a’ suoi piedi ed esclamai: salvatemi.
Io non so, signore, e non credo, che l’umana intelligenza possa risolvere questo problema, se cotesto ente indefinibile aveva il potere d’influire su’ miei sogni e dettare ad un demonio le immagini, che mi avevano spinto a gettarmi a’ piedi di lui colla speranza di trovare in esso la mia salvezza. Checchè ne sia, è certo, che egli profittò del mio terrore, metà immaginario, metà reale, ed incominciò dal volermi dimostrare, che aveva diffatti il potere di salvarmi. Mi propose in seguito una condizione spaventevole, che io non comunicherò giammai a nessuno fuorchè al mio confessore.
(Qui Melmoth si risovvenne della condizione incomunicabile, che era stata proposta a Stanton nell’ospedale de’ pazzi. Fremette e tacque. Lo Spagnuolo continuò.)
All’interrogatorio seguente le questioni furono piucchè mai serie e pressanti. Io confessai senza esitare di aver riveduto l’ente misterioso, il quale senza permesso e senza impedimento poteva penetrare le mura del Sant-Uffizio. I giudici tremavano su’ loro seggi nel mentre che io loro ne faceva la relazione. Io ripetei tutto quello, che si era passato tra di noi, ad eccezione della sola proposizione, che io aveva risoluto, come testè vi ho detto, di non rivelare a chicchessia. Avrebbero i giudici voluto esigere da me che io continuassi, ma io mi ricusai. Essi si parlarono all’orecchio, ed in quell’intervallo avendo girato lo sguardo inquieto e tristo intorno il salone mi venne fatto di vedere assisa ad un tavolino una persona ricoperta di un manto nero, la quale poneva in iscritto le risposte degli accusati; desso era il compagno della mia fuga, divenuto uno degl’inservienti del tribunale. Perdetti ogni speranza quando vidi il suo occhio feroce e perfido che rassembrava a quello di una tigre che vada in traccia della sua preda. Ho luogo di credere, essere stato lui che dettò la terribile sentenza, che io sentii pronunziare:
«Voi, Alonzo di Moncada, religioso professo dell’ordine di ***, accusato dei delitti di eresia, d’apostasia e di fratricidio.... (Oh! no, no, esclamai io, ma nessuno fece a me attenzione) e di cospirazione col nemico dell’uman genere contro la pace della comunità, nella quale avevate pronunziati i voti di consacrarvi a Dio, accusato inoltre d’aver comunicato nella vostra cella, situata nelle prigioni del Sant-Uffizio, con un messaggiero infernale del nemico di Dio, dell’uomo e della vostra anima stessa, convinto per vostra propria confessione d’aver dato accesso nella vostra propria cella allo spirito infernale, siete colla presente condannato a....»
Non intesi altro; gettai un grido, uscii fuori di me, ed al ritornare che feci ai sensi mi ritrovai nella mia cella, isolato, ed aspettando il termine fatale del mio destino. Ma ad un tratto seguì un avvenimento, le cui conseguenze fecero variare i miei timori, i miei calcoli, le mie speranze: voglio dire il grande incendio, che si manifestò nelle prigioni del Sant-Uffizio verso la fine del passato secolo.
Fu la notte del 29 novembre del 17**, che occorse cotesto straordinario avvenimento. Al primo avviso che la fiamma si propagava rapidamente, e che l’edifizio era in pericolo, fu ordinato di trasportare i prigionieri in un gran cortile per esser ivi guardati! Fummo fatti sortire tranquillamente dalle nostre celle; ciascheduno di noi fu condotto in mezzo a due guardie, che non ci usarono alcuna violenza, anzi ci assicuravano che se il pericolo diventasse imminente ad ognuno sarebbe stato lecito di cercare il proprio scampo. Il quadro che noi formavamo era degno di tenere occupato il pennello di un valente artista. Il nostro cammino era rischiarato dalla luce delle fiaccole, la quale indebolivasi a misura che le fiamme si elevavano sulle nostre teste, e si ravvolgevano in vortici misti di denso fumo. Il cielo era di fuoco.
I soccorsi arrivavano lentamente: gli spagnuoli sono di loro natura indolenti; le pompe non agivano con la necessaria prontezza; il pericolo andava crescendo, e le fiamme prendevano sempre più vigore. I pompieri paralizzati dal terrore si misero in ginocchio ed implorarono l’assistenza dell’alto. Tutte le campane di Madrid suonavano; tutti gli alcaldi erano accorsi, il re stesso si era recato al luogo dell’incendio. Io sono persuaso che venti abili pompieri sarebbero riusciti a spegnere il fuoco, ma i nostri erano in ginocchioni quando sarebbe stato tempo di agire.
In questo frattempo io, che mi trovava in piedi in mezzo agli altri prigionieri, fui colpito da uno spettacolo straordinario. Vicino all’edifizio della inquisizione scorgevasi una chiesa con un alto campanile. La notte era estremamente oscura, e questo campanile brillava come una meteora nel firmamento; io ci distingueva perfino le ore che segnava l’orologlio; ed il progresso pacifico e silenzioso del tempo, in mezzo alla confusione ed al tumulto di quella orribile notte, avrebbe potuto offrirmi materia di profonde meditazioni, se la mia attenzione non fosse stata in certo modo incatenata dalla vista di una figura umana, ferma ed immobile sopra la cuspide del campanile, e che novello Nerone contemplava quella scena con una calma perfetta. Era impossibile che m’ingannassi alla vista di cotesta figura: era quella dell’incognito, che mi aveva visitato nella mia cella. In quel momento medesimo la volta del cortile, che ci stava dirimpetto cadde a’ nostri piedi con uno spaventevole fragore ed in mezzo ad un oceano di fiamme; un grido unanime uscì dalle bocche di ognuno. Prigionieri, guardie, inquisitori fremerono tutti, e non formarono più, che un gruppo riunito dallo spavento....
Dopo un breve istante le fiamme essendo state momentaneamente soffocate da una tanto vasta massa di pietre e di rottami, s’innalzò una sì alta nube di fumo e di polvere; che permetteva appena di distinguere i lineamenti delle persone che vi erano al fianco. La confusione fu aumentata dal contrasto di questa improvvisa oscurità con lo splendore della luce vivissima, che ci aveva quasi acciecati per più di un’ora come pure dalle grida degl’infelici feriti o storpiati dalla caduta della volta. In mezzo a quelle grida, a quelle tenebre, a quelle fiamme vidi d’avanti a me uno spazio libero. Il pensiero ed il movimento fu in me simultaneo. Nessuno mi teneva d’occhio, nessuno pensava ad inseguirmi, e molto prima che avessero potuto rimarcare la mia assenza, o far di me ricerca, io aveva traversato l’ammasso de’ rottami, ed errava in segreto ed in sicurezza per le vie di Madrid.
Ogni pericolo sembra leggiero a chi è sfuggito da un pericolo estremo ed imminente. Il misero che scampa dal naufragio è indifferente riguardo alla costa ove approda, e quantunque Madrid per me non se, che una prigione, un poco meno stretta di quella della inquisizione, l’idea che io non era più nelle sue mani mi cagionò un sentimento vago, ma delizioso, di sicurezza. Se io avessi riflettuto un momento, avrei saputo, che il mio vestiario stesso mi avrebbe tradito in ogni luogo ove io fossi andato; ma la circostanza mi fu favorevole: le vie erano deserte; tutti l’individui, che non erano in letto riempievano le chiese, ove con le loro preghiere cercavano di disarmare la collera del cielo e di ottenere l’estinzione delle fiamme.
Io continuai a correre senza sapere dove andassi, risoluto di correre fino a che le forze mi avessero assistito. L’aria pura, che io non aveva da lungo tempo respirato, dopo di avermi rianimato nel primo momento, non tardò a togliermi la respirazione. Vidi innanzi a me un edifizio: le sue larghe porte erano aperte; entrai precipitosamente: era una chiesa. Caddi tutto ansante sul pavimento. Una debol luce rischiarava la chiesa; tosto che mi fu possibile di muovermi un poco mi alzai, ed abbandonai il monumento sepolcrale al quale mi era appoggiato. In quel momento lo splendore della lampada parve un poco aumentare quasi maliziosamente, e mi permise di leggere l’iscrizione. Vidi le parole: Orate pro anima etc. Arrivai al nome, ed era: Giovanni di Moncada. Mi slanciai fuori della Chiesa come se fossi stato inseguito da una legione di demonii. Era sulla tomba prematura di mio fratello, che io mi era riposato!