Melmoth o l'uomo errante/Volume I/Capitolo III
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CAPITOLO III.
Siccome testè abbiam detto, il manoscritto era scolorato, cancellato, e, ciò che più importa, era mutilato al di là di quello, che si possa immaginare. I più famosi filologi avrebbero inutilmente perduto il loro tempo, se avessero voluto, o dovuto intieramente dilucidarlo: Melmoth non potè leggere che alcuni pezzi distaccati. Comprese, che chi lo aveva scritto era un inglese chiamato Stanton, il quale aveva intrapreso un viaggio poco tempo dopo la restaurazione. A quella epoca non si viaggiava con tanta facilità, quanta a’ dì nostri, e per ben conoscere i principali paesi del continente, era necessario impiegare molti anni per poterli percorrere.
Verso il 1676 Stanton si trovava in Ispagna. Siccome la maggior parte dei viaggiatori del suo secolo, egli aveva dell’istruzione, della intelligenza, della curiosità; ma ignorava la lingua del paese, e andava talvolta da un convento all’altro dimandando ospitalità, vale a dire un pasto ed un letto, ch’egli otteneva sotto la condizione di sostenere tesi in latino sopra qualche punto di teologia o di metafisica contro il primo religioso, che volesse offrirsi per argomentargli contro. Il più delle volte i religiosi convenivano, ch’egli era buon latinista e molto forte in logica, e gli accordavano volentieri il letto e la cena.
Non ebbe però questa sorte il 17 agosto del 1677. Abbandonato da una guida paurosa, la quale alla vista di una croce eretta sul margine di una strada, forse in memoria di qualche assassinio ivi succeduto, erasi dato alla fuga per timore che l’eretico che egli accompagnava non gli apportasse qualche disgrazia, Stanton era rimasto soletto nelle vaste pianure del regno di Valenza, e questo all’avvicinarsi della notte e mentre il tempo minacciava tempesta. La bellezza sublime, ma piacevole e grata del paese aveagli cagionata una sensazione deliziosa, ed egli godeva di cotesta sua situazione alla maniera inglese, cioè in silenzio.
I magnifici avanzi, che avevano lasciato in quel paese le due nazioni, che lo avevano successivamente posseduto, circondavano da tutte le parti il nostro viaggiatore. Egli non vedeva intorno a sè, che palagi Romani e fortezze fatte costruire dai Mori. Le nuvole pregne che s’innalzavano lentamente sull’orrizzonte rassembravano ad un manto di cui ricoperti cotesti spettri di una grandezza inaudita. Desse si avvicinavano, ma non li nascondevano; sarebbesi detto che la natura ella medesima rispettava il potere dell’uomo. Da lungi la graziosa vallata di Valenza arrossava di tutto lo splendore del sole che era prossimo al suo tramonto, come la giovane sposa al momento di abbandonare la casa paterna e passare in quella dello sposo novello. Stanton riguardava intorno a se, e restò maravigliato della differenza tra le ruine Romane e quelle dei Mori. Fra quelle si vedevano teatri e pubbliche piazze; queste non offrivano che fortezze, le quali sembravano inespugnabili. Un tal contrasto aveva qualche cosa di sorprendente per un filosofo. I Greci ed i Romani, se creder si deve a quanto ne dice il dottor Joffson, erano barbari, perchè essi non conoscevano la stampa, eppur ciò non ostante dappertutto si veggono traccie del loro gusto pe’ piaceri e comodità della vita, mentre che gli altri popoli conquistatori non hanno lasciato ne’ paesi che hanno posseduti, che vestigie del loro amor disordinato del potere.
Coteste ed altre consimili riflessioni riempievano lo spirito di Stanton, il quale nelle visioni della sua mente obbliò la viltà della guida, che lo aveva abbandonato, la sua solitudine e pericolo all’approssimarsi della tempesta in un paese poco ospitaliero, avuto anco riguardo alla sua qualità di eretico. Compiacevasi egli di contemplare la scena magnifica, e nello stesso tempo terribile, che gli si presentava allo sguardo. La luce faceva contrasto con le ombre, e la profonda oscurità, che regnava ad intervalli, era il precursore di una luce più terribile ancora. Stanton fu intanto richiamato al sentimento del pericolo, che correva, quando cioè vide scoppiare il fulmine e ridurre in polvere gli avanzi di una torre romana. Le pietre fesse per lo mezzo caddero giù rotolando con fracasso dall’alto della montagna e vennero a posarsi a’ piedi del viaggiatore.
Trasalì e provò un momento di terrore; ma bentosto l’impossibilità di trovare un ricovero e ripararsi dal pericolo, gli somministrò coraggio o almeno la rassegnazione della disperazione. Egli procedeva lentamente, e la sua mente era immersa in riflessioni morali sulla fragilità delle umane grandezze; quando fu scosso dalla profonda sua attenzione alla vista di due persone portanti il cadavere di una giovane donna, molto bella in apparenza, che il fulmine avea percossa ed uccisa. Stanton essendosi avvicinato sentì che i portatori andavano esclamando: E non vi è alcuno per poterla compiangere! Non vi è alcuno per poterla compiangere! Quand’ecco ad un tratto comparire due altri individui, che portavano ancor essi un cadavere tutto nero e sfigurato; era quello di un giovane. Lo stesso colpo aveva tolti di vita ambedue cotesti sposi novelli.
Appena si fu allontanato quel gruppo di persone meste e dolenti, Stanton vide a se avvicinarsi con passo tranquillo un uomo, la cui fisonomia era impassibile; al contemplarlo sarebbesi detto che a nessun pericolo poteva esser egli sottoposto, e che il timore a lui era onninamente straniero. Dopo aver esso considerato per alcuni istanti lo spettacolo, che se gli offriva allo sguardo, diede in uno scoppio di risa sonoro, bizzarro, prolungato, ed i contadini spaventati da quello strepito più che se fosse stato il fragore del tuono, si affrettarono ad allontanarsi col luttuoso carico che portavano. I timori di Stanton cedettero il luogo allo stupore, e rivolto allo straniero, che era rimasto immobile al suo posto si fece ardito a dimandargli la causa che spinto lo aveva ad oltraggiare in tal guisa la misera umanità. Lo straniero rivolse un cotal poco il capo, e con uno sguardo che... (In questo luogo il manoscritto presentava alcune linee, che non erano in modo alcuno leggibili.) Egli gli disse in inglese... (Qui si trovava una grande lacuna, ed il primo passo intelligibile, che si trovava, quantunque appartenente alla medesima narrazione, non era, che un piccolo frammento)...
...Lo spavento, che Stanton aveva provato nel corso di quella notte terribile gli aveva fatta acquistare una certa ostinatezza in lui non naturale; egli era risoluto di pervenire al suo intento, nè la voce acuta della vecchia femmina, che andava ripetendo: Lungi da noi gli eretici!... Non vogliamo saperne d’Inglesi!... che la Santa Madre di Dio ci protegga! nè il rumore che faceva Stanton picchiando fortemente alla porta, che la vecchia aveva un pocolino aperta e che richiuse prontamente alla vista de’ lampi, poterono indurlo a ristare dalle sue pressanti sollecitudini, perchè lo facessero entrare in casa. Egli immaginava, che in una tanto spaventevole notte tutti i sentimenti di prevenzione religiosa o nazionale, dovessero cedere all’adorazione dell’Ente Supremo, che tiene le folgori nelle sue mani, ed alla compassione per quelli che vi sono esposti; ma non tardò a conoscere che le esclamazioni della vecchia femmina non derivavano dalla sola divozione, e che ad essa era aggiunto un orrore personale per gl’Inglesi. Cotesta scoperta non diminuì ciò non ostante il suo desiderio di...
La casa era spaziosa e bella; ma aveva un aspetto luttuoso e deserto.... Intorno alle muraglie vi erano delle panche, ma nessuno in esse ponevasi a sedere; le tavole erano preparate ed imbandite nel luogo, che un tempo aveva servito di sala da ballo, ma da molti e molti anni nessuno più in esse mangiava. La campana batteva le ore, e nè il trambusto de’ lavori e degli operai, nè le acclamazioni della gioia venivano a soffocarne il suono. I ritratti di famiglia che decoravano le pareti, essi soltanto davano un aspetto di vita all’abitazione, e sembravano dire in tuono mesto: Nessuno più ci contempla! I passi di Stanton e della sua guida risuonavano soli sotto le ampie volte, mescolandosi al sordo muggito del tuono, che si faceva udire di lontano.
Inoltrandosi udirono un acutissimo strido. Stanton soffermossi perchè in quel momento gli si affacciarono al pensiero i pericoli, cui sovente i viaggiatori vanno esposti nelle abitazioni lontane e deserte. La vecchia femmina, che continuava ad accompagnarli e guidarli al debol lume di una misera lucerna: Non badate a ciò, disse loro: non è altri, ch’egli, che..... La vecchia femmina avendo un poco dimessa la sua ruvidezza, si fece coraggio, e cominciò in questi termini la sua narrazione, che Stanton tutto che affaticato, e non avente gran piacere di udire vi si........ Tutti gli ostacoli erano alla fine sormontati. I parenti e gli amici non opponevano più difficoltà al matrimonio, ed i giovani erano stati già uniti. Giammai coppia più amabile erasi presentata dinanzi agli altari. Le nozze furono celebrate con molta pompa, e dopo pochi giorni fu data una gran festa in quella sala medesima per dove siete passato ed il cui aspetto vi è sembrato sì lugubre. In quel giorno era stata parata con una ricca tappezzeria rappresentante le imprese del Cid; le figure erano tanto bene scolpite e rilevate, che si sarebbero potute credere viventi. Alla estremità superiore della sala e sotto un magnifico baldacchino erano assise la giovane sposa, donna Inès a fianco della sua genitrice donna Isabella di Cardoza, ambedue sopra ricchi e superbi cuscini. Lo sposo era seduto di faccia, e quantunque non si parlassero fra di essi; ma co’ loro furtivi sguardi, sguardi che arrossivano, se così è lecito esprimersi, si comunicavano a vicenda le delizie segrete della loro contentezza. Don Pietro di Cardoza aveva radunata una numerosa comitiva per celebrare il matrimonio della sua figlia. Tra i convitati trovavasi un viaggiatore inglese chiamato Melmoth. Nessuno sapeva come ivi fʊssesi introdotto. Siccome tutti gli altri, esso pure guardava il silenzio nel tempo che i camerieri ed i domestici presentavano alla società de’ gelati e de’ rinfreschi. La notte era eccessivamente calda, e la luna brillante quasi come i raggi del pianeta maggiore, diffondea l’argentea sua luce sulle rovine di Segunto. Le portiere ricamate delle finestre non si muovevano, se non di un moto lento e tardo, come se il vento usasse vani sforzi per sollevarle.
(Una nuova lacuna, poco considerevole però, si trovava ancor qui nel manoscritto.)....
I convitati passeggiavano dispersi qua, e là a loro talento pe’ viali del giardino. Gli sposi novelli ne percorrevano uno, in cui si mescolavano insieme i soavi profumi de’ mirti e de’ melaranci. Rientrando nel salone dimandarono ambedue se nessuno avesse inteso il suono quasi celeste, che avevano essi udito eccheggiare fra boschetti. Nessuno aveva sentito suono di alcuna sorta: tutti rimasero compresi perciò da stupore. Il solo inglese, che non erasi dipartito dalla sala del festino, sorrise, per quanto viene assicurato, in una maniera affatto particolare. Già era stato rimarcato il suo silenzio, ma lo avevano attribuito al suo ignorare la lingua spagnuola; ignorare, di cui nessuno di quelli, che ivi erano radunati, aveva voluto accertarsi, indirizzandogli la parola. Non si fece più motto intorno alla melodia fino a che i convitati si furono posti a tavola. In quanto a donna Inès e al suo giovane sposo, sorridendo vicendevolmente fra loro con una gioia mista di sorpresa, dichiararono di sentirla tuttora. I suoni sembrava che ondeggiassero per l’aere; i convitati sentironli ancor essi ma nulla poterono distinguere. Tutti immaginavano che vi dovesse essere qualche cosa di straordinario. Zitto! Zitto! gridarono ad un tratto da tutte le parti. Seguì un profondo silenzio, e all’osservare gli sguardi fissi ed immobili degli astanti, sarebbesi potuto dire, che loro mente era di ascoltare con gli occhi. Quel silenzio, opposto allo splendor della festa ed al chiarore degli accesi doppieri, produceva un effetto singolare e tremendo. Fu però interrotto, quantunque il motivo non ne fosse per anco cessato, dall’arrivo del padre Olveida confessore di donna Isabella, il quale aveva tardato a venire trattenuto dagli ultimi doveri che aveva renduti ad un moribondo.
Cotesto religioso era reputato per tutta la contrada per un uomo di una vita santa ed esemplare. La cerimonia, che aveva egli testè eseguita avea lasciato sulla di lui fisonomia delle traccie di una malinconia profonda.
Gli fu fatto posto a tavola, e trovossi precisamente in faccia dell’Inglese. Quando gli fu presentato il vino volle egli fare una piccola preghiera interna prima di appressarsi alle labbra il bicchiere; ma esitò la mano cominciò a tramargli, posò il bicchiere ed asciugossi le grosse gocciole di sudore che gli cadevano dalla fronte. Don Pietro immaginando, che il vino presentatogli fosse disgustoso al suo palato ordinò di recargliene un’altra qualità. Egli fece un movimento con le labbra come se volesse pronunciare una benedizione sulla comitiva; ma anco cotesto sforzo inutile e l’alterazione de’ lineamenti del suo volto divenne a tutti visibile. Olveida si accorse egli medesimo della sensazione che produceva la sua strana condotta, e tentò di nuovo approssimare la coppa alle labbra. Tutti lo esaminavano attentamente, e quantunque la sala fosse piena di gente, udivasi distintamente il romore che faceva tutta la sua persona tremando. Gli fu imposibile di bere. I convitati guardavano il silenzio pieni di stupore, dessi erano tutti al loro posto, solo Olveida era in piedi; ma all’istante medesimo l’inglese levossi in piedi, e fissando i suoi occhi su quelli dell’ecclesiastico, sembrò che volesse in certa maniera affascinarne lo spirito. Olveida sentì mancarsi le forze, vacillò ed appoggiandosi al braccio di un paggio chiuse gli occhi come per evitare lo sguardo dello straniero, sguardo il cui straordinario splendore avea d’altronde atterrita tutta la società, ed esclamò: Chi mai si trova pres so di noi? Chi? Io non saprei pregare alla sua presenza. La terra che egli calpesta co’ suoi piedi si dissecca! L’aria che egli respira è di fuoco! Le vivande che egli tocca si convertono in veleno! Il suo sguardo è più terribile della folgore! Chi mai è presso di noi? Chi? ripete una seconda volta l’ecclesiastico, con una espressione dolorosa che era visibile in tutti i suoi movimenti; il suo cappuccino cadutogli indietro lasciava vedere una fronte quasi calva, sulla quale i rari capelli si sollevavano per lo spavento, mentre che le braccia gli uscivan fuori delle maniche, quasi per ispingersi verso il terribile straniero. Durante questo tempo lo straniero era rimasto dirimpetto a lui nella più tranquilla posizione. Fra gli atteggiamenti di quelli che li attorniavano, si vedeva una irregolarità molto in contrasto con la severa posizione de’ due avversarii, che continuavano a guardarsi in silenzio.
Chi lo conosce? gridò Olveida, come se fosse uscito dallo stato di estasi o rapimento; chi lo conosce? chi mai qui lo ha condotto? Tutti i convitati dichiararono di non conoscer punto l’Inglese, e si dimandavano a vicenda all’orecchio che ve lo avesse potuto condurre. Il buon padre Olveida accennando col dito ogni individuo della società, dimandò all’uno dopo l’altro, se lo conoscessero. No, no, no, fu l’unanime risposta fatta da tutti con un tuono enfatico.
Io, io lo riconosco, disse Olveida! lo riconosco a questo sudore gelato; e si asciugava la fronte, a queste membra attaccate da improvvisa convulsione; e si sforzava indarno di fare il segno della croce; quindi alzando la voce voleva pronunziare le sacre parole dell’esorcismo, ma non potè pervenirvi. Lo spavento, il terrore si facevano sempre più distintamente conoscere nella sua fisonomia di mano in mano che andava fissando lo sguardo sullo straniero. Tutti i convitati si alzarono, e riuniti in piccoli gruppi, non cessavano d’interrogarsi l’un l’altro: Chi è dunque costui? Ma ben tosto il loro terrore fu al colmo quando videro che Olveida, all’istante medesimo in cui accennava col dito verso l’inglese, cadde senza movimento....... Egli non era più.........
Il cadavere fu trasportato in un’altra camera; nessuno si accorse che l’inglese era partito, se non quando tutta la comitiva rientrò nella sala del festino. Entrarono in lunghi discorsi, il cui soggetto principale era l’avvenimento tragico e singolare del quale erano stati testimoni. Quando ad un tratto alcune grida di spavento, di orrore e di pena uscirono dalla camera nuziale ove i novelli sposi si erano ritirati. Tutti corsero verso la porta, il padre era alla loro testa; desso entrò il primo, e vide il giovane sposo, che sosteneva sulle braccia la sposa diletta, ch’era in quell’istante spirata.
..........Egli non ricuperò più la ragione. La famiglia abbandonò il luogo fatale, contrassegnato da tante sciagure. Il misero, di cui la mente è affatto alienata occupa egli solo un appartamento, e le grida che voi traversando le abbandonate sale sentiste, sono le sue. Egli ordinariamente se ne sta taciturno ed immobile durante il corso della giornata; ma all’avvicinarsi della mezza notte con una voce orribilmente stridula e pungente grida a più riprese: Oh! eccoli, vengono! vengono! dopo di che ricade nel suo consueto silenzio profondo.
I funerali del padre Olveida furono accompagnati da una circostanza straordinaria. Essendo stato interrato nel più prossimo convento, la riputazione della santità della sua vita e l’interesse risvegliato dalla straordinaria sua morte, fecero concorrere un gran numero di persone alla cerimonia. Ad un religioso dotato di una sublime facondia fu dato l’incarico di tessere la di lui funebre orazione. Dopo aver egli annoverate tutte le virtù del defunto: o Dio! esclamò, perchè non avete voluto conservarcelo più a lungo! Tutto ad un tratto una voce rauca, senza che si potesse conoscere d’onde fosse pervenuta, rispose: perchè egli meritò una tal sorte....
— Qui una grande lacuna vedevasi nel manoscritto. —
Lo spagnuolo confessò inoltre a Stanton, che.......... e che l’inglese erasi in seguito lasciato vedere diverse altre volte in quelle vicinanze, e non mancava chi dicesse di averlo scorto in quella notte stessa.
Giusto cielo! esclamò Stanton risovvenendosi dello straniero, il cui riso satirico lo aveva fatto inorridire nel mentre che stava considerando i cadaveri de’ due amanti percossi dalla folgore.