Maria Stuarda (Alfieri, 1946)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Maria, Lamorre.
a te recar, poiché il tuo popol fido
mi tien da tanto; e poiché al soglio intorno
non è chi voglia o ardisca dirlo. In seno
fiamma, cui non son esca umani affetti,
ma che tutta arde in Dio, libera io nutro.
Maria Non lieve impulso è la licenza vostra
(o sia da me concessa, o da voi tolta)
alla licenza popolare. All’ombra
santa de’ templi, in securtá le mire
vostre non sante crescono: svelati
voi siete omai. Ma, perché aperto sia
che udir non temo io ’l ver, piú che tu dirlo,
io t’ascolto; favella.
Lamor. A te sgradito,
duolmene assai, son io; ma forse or posso
giovarti; e laude fia, piú che il piacerti.
Queste lagrime mie, finte non sono;
non di timor fallaci figlie: il pianto
questo è di tutti; e queste voci mie,
son del tuo popol voce. — Or dimmi; a nome
di Scozia tutta il chieggio; or dimmi: sei
tu stessa in trono al fianco tuo, che ha nome
di re, ti è sposo? ovver nemico, o schiavo?
Maria Schiavo Arrigo, o nemico, a me? Che parli?
Amante e sposo ei nel mio cuore è sempre;
ma nel suo, chi ’l può dire?
Lamor. Ei, da te lungi,
tuoi veri sensi interpretar mal puote;
e men tu i suoi.
Maria Lungi da me ch’il tiene?
S’impon da corte ei volontario il bando.
Quante fíate al ritornarvi invito
non gli fec’io? Pur dianzi, ove ridotta
morbo crudel mi avea di vita in fine,
non che vedermi, intender del mio stato
volea pur ei? Dell’amor mio quest’era
premio, il miglior; taccio degli altri; e taccio,
che di vassallo mio re vostro il feci,
e per gran tempo mio; che ai piú possenti
re di Europa negai per lui mia destra. —
Non rimembrar, far beneficj io soglio;
ed obliar saprei fors’anche i tanti
non giusti oltraggi a me da Arrigo fatti,
se in lui duol ne vedessi, almen pur finto.
Lamor. Da te in bando lo tien fredda accoglienza,
e susurrar di corte, e vili audaci
sguardi de’ grandi, e lo accennarsi, e il riso,
e l’esplorare, e l’auliche arti a mille,
atte a scacciar, non ch’uom che re si nomi,
ma qual piú umile e sofferente fora.
Maria E allor che a lui tutta ridea dintorno
questa mia corte, altro il vid’io? Le faci
ardeano ancor quí d’imeneo per noi,
e mi avvedeva io giá, che in cor gli stava
non io, ma il trono. Ahi lassa me! deh, quante
volte il regal tiepido letto io poscia
d’altezza troppa, ove per essa tolto
era a me d’ogni ben l’unico, il sommo,
l’essere amando riamata! Eppure
io, benché lungi da soverchia e falsa
opiníon di me, pur mi vedea
di giovinezza e di beltade in fiore
quanto altra il fosse; e d’amor vero accesa,
che pregio era ben altro. Or, che n’ebb’io?
D’ogni oltraggio il piú fero in cambio n’ebbi.
Largo al par del mio onore ei, che del suo,
con empia man traea quel Rizio a morte;
macchia eterna ad entrambi...
Lamor. E che? nol desti
or per anco all’oblio? Straniero vile,
in soverchio poter salito, ei spiacque
al tuo consorte: e al popol tuo...
Maria Ma farsi
ei l’assassin dovea di un vil straniero?
Fare, o lasciar, che sel credesse il mondo,
ch’io per colui d’iniqua fiamma ardessi?
Giusto Dio, ben tu il sai! — Fedel consiglio,
conoscitor degli uomini sagace,
ministro esperto erami Rizio: in mezzo
al parteggiar secura, per lui, stetti:
vani, per lui, della instancabil mia
aspra nemica Elisabetta i tanti
perfidi aguati: Arrigo in fin, per lui,
la mia destra ottenea con il mio scettro.
Né disdegnava ei lo straniero vile,
fin che per mezzo suo vedea da lungi
la corona, il superbo. Ei l’ebbe: e quale
mercé ne diede a Rizio? Infra le quete
ombre di notte, entro il regal mio tetto,
fra securtá di sacre mense, in mezzo
a inermi donne, a me davanti, grave
d’amor giá dolce, al tradimento ei viene:
e di quel vil, quanto innocente, sangue
la mensa, il suolo, e le mie vesti, e il volto
contaminarmi, e in un mia fama, egli osa.
Lamor. Troppo era Rizio in alto. A un re qual puossi
piú oltraggio far, che averlo posto in seggio?
Tor può il regno chi ’l diede; e chi il può torre,
s’odia e spegne dai re. Ma pure, Arrigo
a tua vendetta abbandonava poscia
di tale impresa i complici: col sangue,
parmi, il sangue lavasti. — Io quí non vengo
d’Arrigo a tesser laudi: egli è minore
del trono; or chi nol sa? Ch’ei t’è consorte,
vengo a membrarti; e che di lui pur nasce
l’unico erede del tuo soglio. Un grave
scandalo insorge dai privati vostri
sdegni; a noi tutti alto periglio è presso.
Fama è ch’oggi ei ritorna: altre fíate
tornò; ma quindi ei ripartia piú mesto,
e assai piú fosca rimaneane l’aura
della tua reggia poi. Deh! fa che invano
oggi ei non venga: assai discordie, troppe,
nutre in se questo regno. In mille opposte
sette straziar, non professare, io veggo
religíon, che giace. Ultimo danno
fia la regal dissensíon; deh! il togli.
Senza velen di menzognera lingua,
di cor verace, arditamente io parlo.
Maria Io tel credo: ma basta. Or deggio in breve
dare all’anglo orator prima udíenza.
Lasciami: e sappi, e al popol di’, se il vuoi,
ch’io di me stessa immemore non vivo
sí, ch’altri or debba il mio dover membrarmi.
Ciò che a dirmi ti sforza amor del vero,
dillo ad Arrigo, a cui piú assai si aspetta.
questo parlar tuo libero, ch’io in prova
di non colpevol coscíenza udiva.
SCENA SECONDA
Maria.
d’empia setta ministri, udrò sempr’io
il favellar vostro arrogante? — Ah! questo,
di quanti affanni seggon meco in trono,
è il piú grave a soffrirsi: eppur mi è forza
soffrirlo, infin che al prisco alto splendore
per me non torna il mio depresso soglio.
SCENA TERZA
Maria, Ormondo.
e d’eterna amistá nunzio m’invia
Elisabetta; il cui possente ajuto
ad ogni impresa tua t’offro in suo nome.
Maria A prova io giá l’amistá sua conobbi;
la mia per essa argomentar puoi quindi.
Orm. Perciò fidanza, e di pregarti ardire
prendo io...
Maria Di che?
Orm. Sai, ch’Imeneo finora
stretta non l’ha de’ lacci suoi; che il solo
successor del suo regno è il figliuol tuo:
per questo unico tuo sí dolce pegno,
speme d’entrambi i regni, a noi non meno
caro, che a te; dare all’oblio ti piaccia
ogni rancor che in cor ti rimanesse
sposo il volesti; ed or, fia ver che in breve
ten diparta il divorzio?...
Maria E chi tal grido
spandea di me? stolto, o maligno ei sia,
se al soglio pur di Elisabetta or giunge,
trovar de’ fede in lei? Né un sol pensiero
del divorzio ebbi mai; ma, se pur fosse,
che mi di’ tu? spiacer potrebbe a quella,
ch’ebbi giá un dí sí caldamente avversa
alle mie nozze?
Orm. Del tuo onor gelosa,
non di tua contentezza invida mai,
fu Elisabetta allora. Al tuo regale
libero senno ella porgea consiglio
amichevole, e franco. Ella ti stolse
da nozze alquanto meno illustri forse,
che doveano spettarsi a par tua donna;
ma nulla piú. Convinta appieno poscia
del tuo saldo voler, tacque; né, credo,
resta or per lei, che appien non sii tu lieta.
Maria È ver: non ella in duri ceppi avvinto
tenne Arrigo, ch’io scelto aveami sposo;
sí che al regal mio talamo ei veniva
fuggitivo dal carcere; e sua destra
livida ancor de’ mal portati ferri
alla mia destra ei congiungea: non ella,
entro il suo regno, in ben guardata torre,
or, tuttavia, ritien del mio consorte
la madre a forza. Ella ben è, che sente
oggi pietá di quello stesso Arrigo. —
Trarla or tu dunque di sí fatta angoscia
dei, col dirle, che Arrigo, a suo talento,
sta in corte, o lungi, in libertá sua piena;
ch’io dal mio cor nol tolsi; e ch’io le altrui
private cure investigar non seppi
Orm. Né l’indiscreto sguardo
entro tua reggia Elisabetta inoltra
piú che non lice. Ad ogni re son sacri,
benché palesi sian, dei re gli arcani.
Dirti m’è imposto in rispettoso modo,
che un successor, sol uno, a doppio regno
poco è, pur troppo; e ch’ella è incerta cosa,
e di temenza piena ognor, la vita
di un sol fanciullo...
Maria I generosi sensi
del suo gran cor, giá nel mio core han desto
emuli sensi. In me la speme è viva
d’esser pur anco madre; e lei far lieta,
lei che gioisce d’ogni gioja mia,
di numerosa mia prole novella.
Ma, se larga d’ajuto a me non manco
che di consiglio ell’è, questo mio regno,
non che mia reggia, in tutta pace io spero
veder fra breve.
Orm. Ad ottener tal pace,
primo mezzo in suo nome oso proporti...
Maria Ed è?
Orm. Non dubbio mezzo. Ella ti brama
piú mite alquanto inver color, che il giogo
di Roma sí, ma non il tuo s’han tolto.
Sudditi fidi al par degli altri tuoi,
e assai di forza e numero maggiori;
uomini anch’essi, e figli tuoi non empj;
a cui sol reca oppressíon sí fera
il lor creder diverso.
SCENA QUARTA
Maria, Ormondo, Botuello.
Botuello il passo; odi incredibil cosa,
che arreca a me, d’Elisabetta in nome,
il britanno oratore. Ella mi vuole
piú mite ai nuovi settatori; Arrigo
sempre indiviso dal mio fianco brama;
e che fra noi segua il divorzio, teme.
Bot. Or chi sí falsa impressíon le diede
della corona tua? qual perseguisti
religíoso culto? e chi pur osa
profferir oggi di divorzio il nome?
oggi, nel dí, che a te ritorna Arrigo...
Orm. Oggi ei ritorna?
Maria Sí. Ben vedi; io prima
di Elisabetta ogni desir prevengo.
Orm. Mendace fama né ai re pur perdona:
di romor falso apportatrice giunse
alla regina mia; come giá venne
a te di lei non men fallace il grido,
che tua nemica te la pinse. Io nutro
(o men lusingo) alta speranza in core,
d’esser fra voi de’ vostri sensi veri
non odíoso interprete verace,
finché a te presso, col piacer d’entrambe,
grata m’avrò quanto onorata stanza.
Maria Malignamente spesso a mal ritorte
l’opre son di chi troppo in alto siede:
finor palesi, e d’innocenza figlie,
le mie non sdegnan testimon nessuno.
Per te sian note a Elisabetta: e intanto
sí per lei che t’invia, che per te stesso,
sarai tu sempre entro mia corte accetto.
SCENA QUINTA
Maria, Botuello.
l’animo, e l’odio; e ammetter pur mi è forza,
ed onorarne il delatore. Or ella
mi assal con arte nuova. A me consiglia
il ben, perch’io nol faccia. Ella mi chiede
che ai settatori io tolleranza accordi;
brama dunque in suo cor ch’io li persegua.
Dal divorzio mi stoglie; ah! dunque spera
ella affrettarlo. Il so, vorria ch’io errassi
quanto da un re piú puossi errar sul trono.
Coll’arti stesse sue schermir saprommi.
Sue finte brame or compiacendo, io voglio
crucciar piú sempre il suo maligno core.
Bot. Ciò pur ti dissi, il sai, quando degnasti
tua mente aprirmi. Omai da te lontano,
per piú ragioni, Arrigo esser non debbe.
Sia vero o finto il minacciar suo lungo
di uscir del regno tuo, torgliene i mezzi
parmi sen deggia, col vegliar sovr’esso.
Maria Certo in me ricadrebbe una tal fuga.
La patria, il trono, il figlio, la consorte
lasciar, per girne mendicando asilo;
chi fia che il veggia, e me non rea ne stimi?
Favola al mondo io non sarò; pria scelgo
ogni mio danno.
Polif. E tu ben pensi. Oh! fosse
pur oggi il dí, che piena pace interna
quí risorgesse! Al fin, poich’ei pur cede
alle tue istanze, a cui finor fu sordo,
sperar tu puoi.
Maria Sí, men lusingo. Al fine,
di sua passata ingratitudin vero,
Ei mi ritrova ognor per lui la stessa:
io perdono a lui tutto, pur ch’io il vegga.
Bot. Deh, pentito ei pur fosse! Il sai per prova
s’io felice ti vo’.
Maria Quant’io ti deggia,
di mente mai non mi uscirá. Tu il soglio,
che i nemici di Rizio empj oltraggiaro,
con la lor morte hai vendicato. In campo
contro i ribelli aperti io t’ebbi scudo;
contro gli occulti, assai piú vili, io t’ebbi
fido consiglio in corte. In un sapesti
schernir d’Arrigo le imprudenti trame,
e rimembrar ch’era mio sposo Arrigo.
Bot. Fatal maneggio! Omai, deh piú non sia
quí d’uopo usarlo!
Maria Ah! se mi ascolta, e crede
Arrigo all’amor mio, (ch’ei sol nol crede)
sperar mi lice ogni ventura. Il trono,
men che il cor del mio sposo, a me fia caro.
Ma udiamlo; io spero: assai può il ciel; la sorte
può assai... Ma dove arte o consiglio or vaglia,
tu piú d’ogni altri a mio favor potrai.
Bot. Il mio braccio, il mio avere, il sangue, il senno,
(se pur n’è in me) tutto, o regina, è tuo.