Malombra/Parte prima/VIII
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CAPITOLO VIII.
Nella tempesta.
— Debbo accendere il lume, signor? — disse Steinegge a bassa voce.
Era notte fatta. Da un gran pezzo Steinegge e Silla stavano seduti nella stanza di quest’ultimo, uno in faccia all’altro, senza parlare. Pareva che vegliassero un morto.
Steinegge si alzò, accese in silenzio una candela e tornò a sedere.
Silla teneva le braccia incrociate, il capo chino sul petto, gli occhi a terra. Steinegge era inquieto, guardava Silla, guardava il lume, guardava il soffitto, metteva una gamba a cavalcioni dell’altra che poi pigliava bruscamente la rivincita.
— Presto bisognerà scendere, signor — diss’egli. — Credo che il signor conte è ritornato da un pezzo.
Silla non rispose.
Steinegge aspettò un poco, poi si alzò, tolse il lume e si avviò adagio alla porta.
L’altro non si mosse.
Steinegge lo guardò, ritirò il collo tra le spalle con un ah di sommessione, depose il lume e venne a piantarsi davanti a Silla.
— Sono un imbecille, signor, non so dir niente, ma sono amico. Vi giuro che se potessi rispondere io per lei, farvi sortire quel colpo di sciabola che dovete aver nel cuore, me lo piglierei volentieri pur di vedervi più contento.
Silla si alzò, gli gettò le braccia al collo.
Steinegge, rosso rosso, impacciato, andava dicendo:
— Oh no... signor Silla... io ringrazio — e si sciolse piano piano da quell’abbraccio. La sventura, la miseria, le amarezze d’ogni sorta lo avevano umiliato sino a renderlo schiavo della famigliarità di coloro cui egli attribuiva una condizione sociale superiore alla sua.
— Bisogna esser così un poco filosofi — diss’egli. — Bisogna disprezzare questa persona. Credete che non ha offeso me otto e dieci e venti volte? Non ricordate stasera quando mi ha parlato, come a un servo? Io ho disprezzato sempre. Quella non ha cuore, nè una briciola. Voi dite quella, voi italiani, una donna onesta, perchè non fa questo che sapete. Voi dite donne vili le altre. Ma io dico: questa, questa (Steinegge batteva rabbiosamente le sillabe) questa è vile. Insulta me perchè sono povero, insulta voi per passione avara.
— Per passione avara?
— Sì, perchè immagina che il signor conte vuol porre voi nel testamento.
— Dunque — diss’egli — ha proprio voluto dire...
— Ma!
— Come, come mai? — ripetè Silla angosciosamente.
— Eh! Qui lo hanno detto tutti.
— Lo hanno detto tutti?
Dopo un lungo silenzio, Silla si avvicinò lentamente a Steinegge, gli posò le mani sulle spalle e gli disse con voce triste e tranquilla:
— E Lei, crede Lei che se vi fosse una macchia sulla memoria più sacra ch’io m’abbia, sarei rimasto qui a farne testimonianza?
— Non ho mai creduto questo. Il signor conte non vi avrebbe chiamato qui; conosco molto bene il signor conte.
— Caro Steinegge, se noi ci lasciamo per non rivederci più, come potrebbe accadere, si ricordi di un uomo che si direbbe, non perseguitato come Lei, no, ma deriso, continuamente, amaramente deriso da qualcheduno fuori del mondo che si diverte a vederlo soffrire e lottare, come i bambini guardan soffrire e lottare una farfalla che han gettata nell’acqua con le ali malconce. Mi si diede un cuore ardente e non la potenza nè l’arte di farmi amare, uno spirito avido di gloria e non la potenza nè l’arte di conquistarla. Mi si fece nascere ricco, e nell’adolescenza, quando avrei cominciato a godere i vantaggi di quello stato, mi si precipitò nella povertà. Mi si promise testè quiete, lavoro e amicizia, quello che l’anima mia sospira, perchè alla gloria ho rinunciato; e adesso mi si strappa via tutto d’un colpo. Vede, ho avuto una madre santa, l’ho adorata e sono io la causa che si oltraggi la sua memoria; io che dovevo immaginar quest’accusa e non la ho immaginata per una incurabile inesperienza degli uomini e delle cose! Mettiamo tutto in due parole: sono inetto a vivere, me ne convinco ogni giorno più. E ho una salute di ferro! Le dico queste cose perchè L’amo, caro Steinegge, e voglio ch’ella mi porti nel Suo cuore. Non le ho mai dette a nessuno. Dica, non Le pare una derisione? Bene — qui gli occhi di Silla sfavillarono e la sua voce diventò convulsa — non lo è. Io ho la forza in me di resistere a qualunque disinganno, a qualunque amarezza; e questa forza non me la sono procurata io. Ne userò, lotterò con la vita, con me stesso, con la sfiducia terribile che mi assale di quando in quando; e sono convinto che Dio si servirà di me per qualche...
Si bussò all’uscio.
Il conte Cesare faceva dire a Silla ch’egli era con gli ospiti e lo pregava di scendere. Silla pregò Steinegge di andar lui in vece sua e di portare le sue scuse, allegando alcune lettere urgenti da scrivere.
Steinegge uscì tutto impensierito. Che intendeva mai fare il signor Silla?
La stessa questione si agitò lungamente nelle regioni inferiori del palazzo. Madamigella Fanny aveva informato per la prima i suoi colleghi della «gran lezione» data dalla sua signorina a quel «tulipano nero», il quale, agli occhi di Fanny, aveva il gran torto di non essersi mai avveduto che erano belli ed arditi. Il cuoco possedeva le informazioni della Giunta con parte della quale aveva bevuto un litro, dopo il fatto, dalla Cecchina gobba. Raccontò che in quel punto il signor Silla tremava tutto; era più bianco di un foglio di carta. — Chi sa, signor Paolo — gli disse Fanny — chi sa che faccia faranno adesso a trovarsi insieme quei due lì! Già la mia marchesina non ha paura di nessuno. — Allora qualcuno disse che il signor Silla si era ritirato in camera e che per quella sera non sarebbe disceso. Il «zuruch» che gli aveva tenuto compagnia un pezzo, n’era uscito tutto stravolto. Altro fatto strano; il signor Silla aveva mandato a riprendere i suoi rasoi che il giardiniere doveva portar seco a Como per farli affilare.
— Sta a vedere — disse Fanny — che quello stupido lì è capace di ammazzarsi senza dare un quattrino di mancia a nessuno!
— Zitta! Andiamo!— disse la Giovanna. — Se il signor padrone avesse a sapere di questi discorsi! E poi, per quel che ci ha fatto Lei!
— A me non tocca — rispose Fanny. — Sicuro che non mi degnerei di attaccargli neppure un bottone. Ho visto la bella roba da straccione che ha. È più «chic» il dottore, di quello lì.
Appena nominato il dottore, Fanny fece una risatina.
— Povero dottore! — diss’ella, e giù un’altra risatina; poi un’altra, poi un’altra; nè volle mai dire perchè ridesse.
E anche nella sala dov’erano riuniti gli ospiti del Palazzo, a chi si pensò se non a Silla e a quello che farebbe? Nessuno ne parlò, perchè donna Marina era presente e il conte non sapeva ancor nulla dell’accaduto. Il conte non capiva queste lettere urgenti dodici ore prima della partenza della Posta, ma tacque. Marina era gaia. Nel riso argentino che saltava spesso dalla sua voce dolce e vellutata, come il sonaglio di un folletto nascosto, si udiva una nota trionfante. Qualche volta rideva anche lei come Fanny, senza ragione, distratta. Rise molto appena partito il dottore. Insomma non pareva punto preoccupata dell’assenza di Silla.
Le ore passavano e la luna veniva su piano piano dietro i nuvoloni ancora fermi a levante, che si squarciavano qualche volta sotto di lei agitando frange d’argento intorno alla sua faccia regale, e si richiudevano. Ella sfolgorava in quei brevi momenti sui vetri della finestra di Silla, guardava nella camera sino al fondo.
Quegli scriveva. Il ronzio della sua penna rapida era interrotto da slanci veementi e da radi silenzi. Le pagine succedevano alle pagine; doveva averne riempite parecchie quella penna, quando si fermò. Silla le rilesse, pensò un poco.
— No!— diss’egli, e stracciò lo scritto.
Prese un altro foglio. Stavolta la penna non correva più. Il pensiero dell’uomo lottava con la parola, con sè stesso forse.
Suonarono le undici e mezzo. Silla aperse la finestra e chiamò Steinegge. Lo aveva udito camminare.
— Scenda subito — diss’egli.
Steinegge corse alla finestra, fece atto, nel primo impeto del suo generoso cuore, di gittarsi abbasso, poi scomparve, e, in meno che non si dice, fu nella camera di Silla, con il soprabito male infilato e senza calzoni. In quel momento nè lui nè Silla pensarono che fosse in arnese ridicolo.
Silla gli andò incontro. — Parto — diss’egli.
— Parte? Quando parte?
— Adesso.
— Adesso?
— Credeva Lei ch’io potessi dormire ancora sotto questo tetto?
Steinegge non rispose.
— Vado a piedi sino a... e là aspetterò il primo treno per Milano. Lei mi farà il favore di consegnare questa lettera al conte Cesare. Qui ci son pochi denari che La prego di distribuire, come crederà meglio, ai domestici. Per fortuna non avevo ancora fatto venire i miei libri; ma lascio qui un baule. Avrà Ella la bontà di spedirmelo?
Steinegge affermò del capo; ma non poteva parlare, aveva un groppo alla gola.
— Grazie, amico mio. Quando avrà fatta la spedizione me ne avverta con una lettera ferma in posta e vi unisca la chiave che Le lascio, perchè vi sarà ancora qualche cosa di mio da raccogliere.
— Oh, ma volete proprio partire così?
— Proprio così voglio partire. E sa cosa ho scritto al conte? Gli ho scritto che le mie idee sono troppo lontane dalle sue perch’io possa accettare la collaborazione offertami; e che onde evitare spiegazioni spiacevoli, onde sottrarmi al pericolo di cedere, parto a questo modo chiedendogliene perdono e protestandogli la mia gratitudine. Uno scritto cortese nella forma e villano nel fondo, uno scritto che lo deve irritare contro di me. Io sdegno di accusarla; le avevo scritto e poi ho stracciata la lettera; ma ella intenderà che ho voluto rispondere a lei spezzando netti d’un colpo i legami che le han dato argomento d’insultarmi. E tutti gli altri intenderanno, spero.
— Per questa donna!— fremè Steinegge, scotendo i pugni.
— Ma Lei non sa il peggio — mormorò Silla. — Lei non sa quanta viltà v’è in me. Glielo voglio dire. Il solo pensiero di posar le labbra sopra una spalla di questa donna mi fa venir le vertigini, mi mette i brividi sotto i capelli. È amore? Non lo so, non lo credo; ma guai se per soffocare l’angoscia e la collera di essere odiato, non ci fosse ancora in me qualche forza indomita di cui ringrazio Dio! Sì, è così. Lei n’è stupefatto, lo comprendo, ma è così. Però, vede, sono un uomo, il sangue vigliacco deve obbedirmi, vado via. Mi stringa la mano; qualche cosa di più, mi abbracci.
Steinegge non seppe proferire che tre ooh soffocati, abbracciò Silla con un cipiglio da nemico mortale e l’affetto tempestoso d’un padre. Poi trasse di tasca un vecchio portasigari sdruscito e lo porse con ambo le mani all’amico. Questi lo guardò attonito.
— Vostro a me — disse Steinegge.
Allora l’altro intese e trasse egli pure un portasigari ancora più vecchio e sdruscito. Se li scambiarono tacendo. Prima di partire, Silla diede un ultimo sguardo, un appassionato saluto mentale alle memorie di sua madre; gli parve che l’angelo pregasse per lui, per l’aiuto di Dio in altri cimenti ancor più gravi, nascosti nel futuro. Uscì nel cortile per una finestra a piano terreno. Non volle che Steinegge lo accompagnasse, gli strinse ancora la mano, e attraversata in punta de’ piedi la ghiaia traditrice, salì lentamente la scalinata fra i cipressi, fermandosi nelle nere ombre oblique che fendevano, come grandi crepacci, le pietre illuminate dalla luna.
Egli si voltava allora a guardar la vecchia mole severa da cui si partiva, secondo le previsioni umane, per sempre. Ascoltava il tenero lamento dello zampillo giù nel cortile, la voce grave della grossa polla su in capo alla scalinata. L’una e l’altra voce chiamavan lui; quella sempre più fievole, questa sempre più forte. Non gli era più possibile veder la finestra di lei, ma guardava là quell’angolo del tetto che copriva la stanza sconosciuta, e la immaginava nei più minuti particolari con la rapidità e la vigoria intensa della passione. Ne respirava veramente il tepore odoroso, vedeva saettarvi per la finestra di levante un raggio di luna, rigare il pavimento, sfiorar un’onda di vesti vôte, brillar sopra uno spillo caduto, sulla punta brunita d’uno stivaletto adunco, scivolar sul letto bianco, battere a una delicata mano sottile e morirvi mandando fiochi bagliori su pel braccio ignudo. A questo punto gli si oscurava la fantasia, una stretta nervosa gli si propagava dal petto a tutta la persona ed egli riprendeva frettoloso, per liberarsi da quello spasimo, la via.
Non è a stupire se la sbagliò. Non era facile, per verità, fra parecchi sentieri che fuggono in mezzo agli uniformi filari di viti, scegliere quello che conduce al cancello. Silla ne prese uno alquanto più basso. Si avvide dell’errore, quando trovò, dopo un tratto abbastanza lungo, che scendeva verso il lago. Pensò che al postutto non era sicuro di rinvenire la chiave del cancello, posta di solito, ma non sempre, in un buco del muro di cinta, e ricordò che ci doveva esser lì presso un’altra uscita per la quale passavano qualche volta i coltivatori del vigneto. La trovò infatti. Il muro di cinta era diroccato per metà e dal campo vicino un gelso spingeva i rami per la breccia. Silla fu presto dall’altra parte, a pochi passi da un approdo che serviva ai coloni del campicello lungo il lago. Un sentiero piano muove da quell’approdo a raggiungere nel suo punto più basso la strada provinciale di Val... ora toccando l’orlo del lago, ora appiattandosi fra siepi e muricciuoli, ora tagliando qualche pendio erboso, rotto da radi ulivi.
Silla si sforzava invano, camminando, di pensare all’avvenire, alla vita di sacrificio e di lavoro indomito che l’aspettava. Malediva la notte piena di voci lascive e la luna voluttuosa, ormai alta nel sereno. Appoggiò la fronte ardente ad un tronco di ulivo, senza sapere che si facesse. Quel tocco ruvido e freddo lo ristorò, lo acquietò come avrebbe acquietato un metallo vibrante.
Si ripose tosto in cammino perchè lampeggiava. In faccia a lui nuvoloni torvi di levante si movevano finalmente, si allargavano verso le montagne, invadevano il cielo con tante cime rigonfie, fluttuanti come una marea furiosa che volesse salire fino alla luna. Gittavano lampi continui, silenziosamente, verso il lume di lei, fuggitiva. Ad un tratto Silla si ferma e tende l’orecchio.
Ode il sommesso borbottar del lago ne’ buchi dei muricciuoli, il lamento dell’allocco nelle selve della riva opposta, il canto dei grilli e il lieve sussurro di un soffio per le viti folte, per le frondi bigio-argentee degli ulivi.
Null’altro?
Sì, due remi cauti, lenti che tagliano l’acqua a lunghi intervalli. Se vicini o lontani, non s’intende bene; sul lago, a quell’ora, solo un orecchio esperto può misurare le distanze dei suoni.
I remi tacciono.
Ecco il sordo rumore d’una chiglia che striscia sui ciottoli della riva. Anche i grilli ascoltano. Poi, più nulla. I grilli uniscono ancora il loro canto a quello dell’allocco lontano, ai borbottamenti del lago pei buchi dei muricciuoli. Silla non poteva discernere questa barca che approdava; vedeva soltanto l’acqua chiara tremolar tra le foglie. Andò avanti. Il sentiero sbucava presto sulla ghiaia d’un piccolo golfo, all’altro capo del quale grossi macigni neri si protendevano nell’acqua. Si rizzava sopra quelli, fra caprifichi e rovi, una cappelletta; e ne sporgeva a piè della cappelletta, la sottile poppa nera d’una lancia. Doveva esservi una cala tra i macigni. Non c’erano altre lancie che Saetta sul lago, e Silla lo sapeva. Ma chi era venuto con Saetta?
Sospettò del Rico e si fermò per non essere scoperto. Vide un’ombra levarsi tra gli arbusti dietro la cappelletta, correr giù, scomparire. Subito dopo sprizzò di là un riso argentino. Impossibile non riconoscerlo; donna Marina! Silla, per istinto, si slanciò avanti, udì una esclamazione di terrore, vide l’ombra di prima ricomparire alla cappelletta e fuggir su tra gli arbusti, mentre donna Marina chiamava invano:— Dottore! dottore! — Silla riconobbe il medico, ma non stette a pensare neppure un momento perchè si trovasse lì. Udì la chiglia della lancia strisciare indietro dalla riva e saltò alla cappelletta quando la prora, ormai silenziosa, era per uscire dalla cala e Marina, deposto il remo di cui s’era fatta puntello, stava assettandosi i guanti.
— Si fermi! — diss’egli ritto sul ciglio del macigno.
Ella die' un lieve grido e impugnò i remi.
Non era possibile lasciarla partire così. A piè del macigno la ghiaia rideva a fior d’acqua. Silla saltò, afferrò la catena della lancia. Marina diede due colpi disperati di remo, ma Saetta obbedì presto al pugno di ferro che la tratteneva.
— Bisogna udirmi, adesso! — disse il giovane.
— Lei mi dirà prima di tutto — rispose Marina fremendo — se il nobile mestiere che ha esercitato stanotte è un Suo passatempo consueto, o se Ella è ai servigi di mio zio!
— Fra che abbietta gente ha vissuto, signorina? È questa la Sua nobiltà? Allora Le giuro che la mia vale di più; e ho ben ragione di sperare che il mio nome venga ricordato ancora con onore quando non vi sarà più memoria del Suo!
Salito sopra un sasso sporgente, scoperta la maschia fronte, Silla dominava la barchetta e la donna, palpitanti dinanzi a lui.
Marina non voleva lasciarsi dominare, batteva l’acqua con un remo, rabbiosamente.
— Avanti — diss’ella — alla seconda scena. Intanto Lei fa una vigliaccheria di tenermi qui per forza.
Silla gittò la catena. — Vada — diss’egli — vada pure se ha cuore. Sappia solo che non recito una commedia, recito un oscuro dramma di cui la seconda scena Le è indifferente.
— Ah, e la prima no? — riprese Marina lasciando cadere i remi e incrociando le braccia.
— La seconda scena — proseguì Silla senza badare all’interruzione — non ha luogo qui. Stia tranquilla; da questa notte in poi non vedrà più nè il dramma, nè il protagonista. Se ha sospettato, nel candore, nel disinteresse dell’anima Sua, ch’io fossi più d’un amico per l’uomo di cui Ella è nipote ed erede, si rassicuri, neppure amico gli sono più forse; perchè pochi momenti or sono, di nascosto, come un malfattore, ho lasciato per sempre la sua casa ospitale, dov’è spuntato, in qualche angolo freddo e ombroso, questo vile sospetto. Se lei poi ha temuto — qui la voce di Silla tremò — di qualche sinistro disegno su donna Marina di Malombra e Corrado Silla, è stato un inganno ben grande il Suo. Se il conte me ne avesse parlato, gli avrei tolta questa illusione, perchè Lei è troppo al di sotto di quell’altero cuore ch’io voglio, capace di disprezzare, come le disprezzo io, la ricchezza e la fortuna. E adesso, marchesina, ho l’onore...
— Una parola! — gridò Marina avvicinandoglisi di fianco con due colpi di remi, perchè una repentina brezza di levante portava via adagio adagio la lancia.
— Il Suo dramma fantastico non va. Ella ha la bontà di farsi una parte eroica. Facile; ma c’è la critica, signor Silla. Dove ha scoperto Lei questa cosa ridicola che io sono una ereditiera sospettosa? Non ha mai veduto quanto mi curo di mio zio? E come osa Lei parlare di progetti sulla mia persona? Le pare che voglia turbarmi di quanto mio zio e Lei possano aver l’impudenza di pensare e di dire?
Intanto Saetta dilungava da capo per la brezza ringagliardita. Marina diede un colpo di remi e si voltò a guardar Silla. La lancia corse un istante contro il vento, contro le onde che gorgogliavan forte sotto la chiglia, e girò subito, respinta, sul fianco sinistro. La luce della luna mancava rapidamente. Fiocchi veloci di nubi, come spume, l’avevan raggiunta, oltrepassata: ora giungevano i cavalloni grossi ed ella vi affondava, non pareva più che un fanale rossastro, perduto nella tormenta, vicino a spegnersi.
— Allora? — esclamò Silla — perchè?
Le altre parole si perdettero nello schiamazzo improvviso delle onde intorno a lui. Una raffica violenta gittò Saetta sul sasso dov’egli stava. — Scenda! — gridò curvandosi ad afferrar la sponda della lancia perchè non vi urtasse. — Subito!
— No, spinga via, vado a casa!
Benchè fossero tanto vicini da potersi toccare, riusciva loro difficile intendersi. Le onde, cresciute di botto smisuratamente, tuonavano sulla riva con un fragore assordante; il timone, la catena, i remi della lancia abballottata strepitavano. Silla vi si stese su, l’allontanò dalla riva con una disperata spinta e vi cadde dentro. — Al timone! — gridò afferrando i remi. — Al largo! Contro il vento! — Marina obbedì, gli sedette in faccia stringendo i cordoni del timone. Ormai il cielo era tutto nero, non ci si vedeva più. Si udiva il tuonar delle onde sulla riva sassosa, sui muricciuoli. Là era il pericolo. Saetta, spinta troppo vigorosamente, alzava la prua sull’onda, la spaccava cadendo a gran colpi sordi; entrava nelle più grosse come un pugnale; allora la cresta spumosa ne saltava dentro, correva sino a poppa. La prima volta, sentendo l’acqua, Marina alzò in fretta i piedi, li posò su quelli di Silla. Nello stesso punto un lampo spaventoso divampò per tutto il cielo e pel lago biancastro, per le montagne di cui si vide ogni sasso, ogni pianta scapigliata. Marina sfolgorò davanti a Silla con i capelli al vento e gli occhi fissi nei suoi. Era già buio quando egli ne sentì nel cuore il fuoco. E quei piedini premevano i suoi: premevano più forte quando la poppa si alzava; ne sdrucciolavan quindi e vi si riappiccicavano. I due remi gli saltarono in pezzi. Cacciò fuori gli altri due ch’erano nella lancia, remò con furore, perchè la notte, le voci della natura sfrenata, quel tocco bruciante, quell’inatteso sguardo gli gridavan tutti di esser vile. E i lampi gliela mostravano ogni momento, lì, palpitante, col viso e il petto piegati a lui. Non era possibile! Fece uno sforzo, si alzò in piedi e passò sull’altra panca più a prua.
— Perchè? — diss’ella.
Anche nella voce di lei v’era una commozione, un’elettricità di tempesta.
Silla tacque. Marina dovette comprendere, non ripetè la domanda. Si vide al chiarore dei lampi un denso velo bianco a levante, una furia di piova in Val... Non veniva però avanti; la rabbia del vento e delle onde diminuiva rapidamente.
— Può voltare, — disse Silla con voce spossata, accennando del capo: — il Palazzo è là.
Marina non voltò subito, parve incerta.
— La Sua cameriera l’aspetta?
— Sì.
— Allora torneremo alla cappelletta. Fra dieci minuti il lago è quieto: io scenderò lì.
— No. — diss’ella. — Fanny non mi aspetta. Dorme.
Voltò Saetta e mise la prora al Palazzo. Non parlarono più nè l’uno nè l’altra. Quando giunsero al Palazzo faceva meno scuro e il vento era caduto affatto, ma le onde strepitavano ancora lungo i muri, tanto da non lasciar udir la barca.
Anche il sangue di Silla si veniva chetando. Passarono sotto la loggia. Quella vista gli rese la sua freddezza altera.
— Lei mi ha detto stamattina — diss’egli — che non La conoscevo. La conosco invece molto bene.
Marina credette forse che volesse alludere alla scena avvenuta lì, e non rispose.
— Guardi com’entra in darsena — diss’ella dopo un momento di silenzio.
— Io lascio i cordoni.
Silla entrò con precauzione. Solo passando adagio adagio per l’entrata, ella gli rispose piano:
— Come può dire di conoscermi? — Ma bisognava ora badare a non urtar il battello, approdar bene, presso la scaletta. Ed era così buio! Saetta strisciò sul fondo sabbioso, si fermò. Silla uscì, tentò con la mano la parete grommosa dello scoglio in cui è scavata la darsena, trovò questa scaletta che mette al cortile e continua poi nell’ala destra del Palazzo, sino all’ultimo piano.
— La scala è qui — diss’egli porgendo la mano a Marina che ripetè nel prenderla:
— Come può dire di conoscermi? — E saltò, dalla prua a terra: ma, imbarazzatasi nella catena, cadde in braccio a Silla. Egli se ne sentì il petto sul viso, strinse, cieco di desiderio, la profumata persona, calda nelle vesti leggere: la strinse fino a soffocarla, le sussurrò sul seno una parola; e lasciatala scivolare a terra corse via per la scaletta, saltò nel cortile.
Marina rimase immobile, con le braccia stese avanti. Non era un sogno, non c’era inganno, non c’era dubbio possibile; Silla aveva detto: — Cecilia.