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rebbe? Nessuno ne parlò, perchè donna Marina era presente e il conte non sapeva ancor nulla dell’accaduto. Il conte non capiva queste lettere urgenti dodici ore prima della partenza della Posta, ma tacque. Marina era gaia. Nel riso argentino che saltava spesso dalla sua voce dolce e vellutata, come il sonaglio di un folletto nascosto, si udiva una nota trionfante. Qualche volta rideva anche lei come Fanny, senza ragione, distratta. Rise molto appena partito il dottore. Insomma non pareva punto preoccupata dell’assenza di Silla.
Le ore passavano e la luna veniva su piano piano dietro i nuvoloni ancora fermi a levante, che si squarciavano qualche volta sotto di lei agitando frange d’argento intorno alla sua faccia regale, e si richiudevano. Ella sfolgorava in quei brevi momenti sui vetri della finestra di Silla, guardava nella camera sino al fondo.
Quegli scriveva. Il ronzio della sua penna rapida era interrotto da slanci veementi e da radi silenzi. Le pagine succedevano alle pagine; doveva averne riempite parecchie quella penna, quando si fermò. Silla le rilesse, pensò un poco.
— No!— diss’egli, e stracciò lo scritto.
Prese un altro foglio. Stavolta la penna non correva più. Il pensiero dell’uomo lottava con la parola, con sè stesso forse.
Suonarono le undici e mezzo. Silla aperse la finestra e chiamò Steinegge. Lo aveva udito camminare.
— Scenda subito — diss’egli.
Steinegge corse alla finestra, fece atto, nel primo impeto del suo generoso cuore, di gittarsi abbasso, poi scomparve, e, in meno che non si dice, fu nella camera di Silla, con il soprabito male infilato e senza calzoni. In quel momento nè lui nè Silla pensarono che fosse in arnese ridicolo.
Silla gli andò incontro. — Parto — diss’egli.
— Parte? Quando parte?