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— Caro Steinegge, se noi ci lasciamo per non rivederci più, come potrebbe accadere, si ricordi di un uomo che si direbbe, non perseguitato come Lei, no, ma deriso, continuamente, amaramente deriso da qualcheduno fuori del mondo che si diverte a vederlo soffrire e lottare, come i bambini guardan soffrire e lottare una farfalla che han gettata nell’acqua con le ali malconce. Mi si diede un cuore ardente e non la potenza nè l’arte di farmi amare, uno spirito avido di gloria e non la potenza nè l’arte di conquistarla. Mi si fece nascere ricco, e nell’adolescenza, quando avrei cominciato a godere i vantaggi di quello stato, mi si precipitò nella povertà. Mi si promise testè quiete, lavoro e amicizia, quello che l’anima mia sospira, perchè alla gloria ho rinunciato; e adesso mi si strappa via tutto d’un colpo. Vede, ho avuto una madre santa, l’ho adorata e sono io la causa che si oltraggi la sua memoria; io che dovevo immaginar quest’accusa e non la ho immaginata per una incurabile inesperienza degli uomini e delle cose! Mettiamo tutto in due parole: sono inetto a vivere, me ne convinco ogni giorno più. E ho una salute di ferro! Le dico queste cose perchè L’amo, caro Steinegge, e voglio ch’ella mi porti nel Suo cuore. Non le ho mai dette a nessuno. Dica, non Le pare una derisione? Bene — qui gli occhi di Silla sfavillarono e la sua voce diventò convulsa — non lo è. Io ho la forza in me di resistere a qualunque disinganno, a qualunque amarezza; e questa forza non me la sono procurata io. Ne userò, lotterò con la vita, con me stesso, con la sfiducia terribile che mi assale di quando in quando; e sono convinto che Dio si servirà di me per qualche...
Si bussò all’uscio.
Il conte Cesare faceva dire a Silla ch’egli era con gli ospiti e lo pregava di scendere. Silla pregò Steinegge di andar lui in vece sua e di portare le sue scuse, allegando alcune lettere urgenti da scrivere.