Malombra/Parte prima/II
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CAPITOLO II.
Il Palazzo.
— Di qua, signore, — disse il servo che precedeva Silla: — il signor conte è in biblioteca.
— È questa la porta della biblioteca?
— Sì, signore.
Silla si fermò a leggere le seguenti parole, libera citazione del profeta Osea, incise in una lastra di marmo sopra la porta:
- Loquar ad cor eius in solitudine.
Parole poetiche e affettuose che prendevano dal marmo una solennità austera, parevano più che umane nel loro senso indefinito, nella rigidezza grave delle morte forme latine, mettevano venerazione.
Il servo aperse l’uscio e disse forte: — Il signor Silla.
Questi entrò frettoloso, trepidante.
Parecchi eruditi e bibliofili lombardi conoscono la biblioteca del Palazzo; una vasta sala, presso che quadrata, illuminata da due ampie finestre nella parete di ponente, verso il lago, e da una porta a vetri che mette al giardinetto pensile, sopra la darsena. Un grande camino antico di marmo nero, sormontato da putti e fregi di stucco, si apre nella parete di fronte alle finestre, e una colossale lampada di bronzo pende dal soffitto sopra un tavolo rotondo, zeppo, per solito, di giornali e di libri. Il mobile più singolare della sala è un grande orologio da muro, bellissimo lavoro del XVIII secolo, ritto fra le due finestre. La cassa, scolpita a mezzo rilievo, mostra scene allegoriche delle stagioni, che da una Fama volante e suonante scendono ad un’altra Fama addormentata, cui cadono le ali e la tromba. Il quadrante è sorretto da vaghe danzatrici, le ore; e sopra di esso si vede spiccare il volo una figurina alata col motto a’ piedi:
PSICHE
Ignoro se la nobile famiglia, cui appartiene da pochi mesi il Palazzo, vi abbia lasciata intatta la biblioteca; allora grandi scaffali altissimi ne nascondevano le parole; i libri vi si erano andati accumulando da più generazioni di signori, molti disformi tra loro di opinioni e di gusti, cosicchè ne durava la contraddizione in quelle scansie, e certe categorie di libri parevano attonite di sopravvivere a chi le aveva raccolte. Non vi era un libro di scienza fisica tra moltissime opere forestiere e nostrali di scienze occulte: dietro a libri d’ascetica o di teologia si celavano opuscoli soverchiamente profani. La biblioteca deve la sua fama a copiose e bellissime edizioni antiche di classici greci e latini, non che a un ricchissima collezione di novellieri italiani, di scritti matematici e d’arte militare, tutti anteriori al 1800. Il conte Cesare scompigliò la raccolta dei classici greci e latini; cacciò i filosofi e i teologi verso le nuvole, come diceva lui, si tenne sotto la mano storici e moralisti; fece incassare e gittare in un magazzino umido i novellieri e i poeti, tranne Dante, Alfieri e le canzoni piemontesi di Angelo Brofferio. Vennero a prenderne il posto parecchie opere straniere di soggetto storico, politico o anche puramente statistico, per lo più inglesi; nessun libro entrò sotto il regime del conte che trattasse di letteratura, nè d’arte, nè di filosofia, nè di economia pubblica, quasi nessuno che venisse di Germania, perchè egli non sapeva il tedesco.
Era là, seduto al tavolo; una lunga e magra figura nera. Si alzò all’entrare di Silla, gli venne incontro e gli disse con accento, spiccatissimo:
— Voi siete il signor Corrado Silla?
— Sì, signore.
— Vi ringrazio molto.
Proferite queste parole con voce dolce e grave, il conte strinse forte la mano al giovane.
— Suppongo — riprese poi — che vi siate meravigliato di non avermi veduto iersera.
— Di altre cose piuttosto... — Continuò Silla, ma il conte gli troncò le parole.
— Oh bene, bene, mi fa piacere perchè sono gli asini e i furfanti che non si meravigliano mai di niente. Però il mio segretario Vi avrà detto, in italiano o in tedesco, che io uso di coricarmi prima delle dieci. Vi pare un’abitudine meravigliosa? Lo è veramente, perchè la tengo da venticinque anni. E come Vi ha condotto quel briccone di vetturale?
— Benissimo.
Il conte fece sedere Silla, sedette egli stesso e soggiunse:
— Ora vorreste sapere dove vi ha condotto?
— Naturalmente.
Silla tacque.
— Oh, comprendo bene il vostro desiderio, ma mi permetterò di non dirvi niente fino a stasera. Intanto voi mi fate il favore d’essere un amico che viene a regalarmi il suo ozio annoiato, o un letterato che vuole assaggiare dei miei libri o del mio cuoco. Che diavolo, io non parlo di affari con un ospite appena entrato in casa mia. Questa sera chiacchiereremo. Credo che non starete poi tanto male qui da non poter trattenervi ancora.
— Tutt’altro — rispose Silla con impeto— ma Lei deve dirmi...
— D’una sorpresa che avete trovato qui? Sì, può essere che io Vi debba quello; ma io mi rivolgo alla Vostra cortesia per pregarvi di non parlarmene prima di stasera. Intanto venite: Vi farò vedere il mio Palazzo, come dicono questi zoticoni di paesani che potrebbero lasciare alla gloriosa civiltà moderna i nomi molto grandi per le cose molto piccole. La mia casa è una conchiglia — diss’egli, alzandosi in piedi. — Già, una conchiglia dove son nati molti molluschi che hanno avuti umori differenti. Forse il primo aveva, sì, degli umori un poco ambiziosi; Voi vedete qui dentro che ha lavorato il guscio alla diavola, senza risparmio. Non ce ne fu poi nessuno che avesse umori epicurei, per cui la conchiglia è molto incomoda. Quanto a me, ho l’umore misantropo e faccio diventar nero il guscio ogni giorno più.
Silla non osò insistere nella sua domanda; subiva un fascino. Il conte Cesare, lungo e smilzo oltre il credibile, con quel suo testone d’irti capelli grigi, con quegli occhi severi nel volto ossuto, olivastro e tutto raso, sorprendeva. Nel suo vocione di basso profondo si sentivano tesori di dolcezza e di collera. Questa voce si muoveva sempre con un’onda appassionata, gettando piene di vita e di originalità le frasi più volgari; veniva vibrante su dalle cavità di un gran cuore, di un petto di bronzo, all’opposto di certe malfide voci acute che scoppiettano, si direbbe, alla punta della lingua.
Egli vestiva un soprabito nero, lungo sino al ginocchio, con certe manicaccie sformate da cui usciva la mano bianca e bellissima. Portava un cravattone nero; de’ solini si vedevano appena le punte.
— Prima di tutto — diss’egli additando le librerie — mi permetto di presentarvi la società dove passo molte ore tutti i giorni. Vi è della gente come si deve, vi sono dei furfantoni e una forte maggioranza di imbecilli che io ho mandato, da buon cristiano, quanto più vicino al regno dei cieli ho potuto. Là ci sono poeti, romanzieri e letterati. Posso ben dire quello a voi sebbene siete un poco uomo di lettere, perchè l’ho detto anche al cavalier d’Azeglio, il quale, con tutte le sua manie di scombiccherar tele e di scriver frottole, ha un certo fondo di buon senso, e si è messo a ridere. Ci sono anche molti teologi lassù. Là, quei domenicani bianchi. Vengono da un Vescovo di Novara, mio prozio, che aveva molto tempo da buttar via. Quanto a’ miei amici, spero che ne farete la conoscenza voi stesso. Sono tutti sotto gli occhi e sotto la mano. E adesso andiamo, se vi piace, a fare questo giro.
Prese il braccio di Silla e uscì con lui.
Il Palazzo sta sull’entrata di un recondito seno dove il piccolo lago .... corre ad appiattarsi fra due coste boscose. Costrutto nello stile del XVII secolo, fronteggia il mezzogiorno con l’ala sinistra e con la destra il ponente. Una loggia di cinque arcate verso il lago e tre verso il monte, corre obliqua tra le due ali, congiungendone i primi piani sopra un enorme macigno nero che si protende sull’acqua. Morso dallo scalpello del giardiniere, quel masso ha dovuto accogliere qua e là del terriccio dove portulache, verbene e petunie ridono alla spensierata. L’ala dritta dov’è la biblioteca, edificata forse per dimora d’estate, si specchia gravemente nelle acque della casa. In faccia, a cinquanta passi, ha una solitaria costa vestita di nocciuoli e di carpini; a destra un vallone erboso dove il lago muore; vigneti e cipressi le salgono dietro il tetto a spiar nell’acqua verde, tanto limpida che quando d’estate, sul mezzogiorno, vi entra il sole, lo sguardo vi discende lungo tratto per le grandi alghe immobili e vede giù nel profondo qualche rara ombra di pesce passar lentamente sui sassi giallastri.
L’ala sinistra guarda il lago aperto, montagne in faccia, montagne a levante; a ponente, verso la pianura, uno sfondo di colline, di prati rigati di pioppe cui si curva un arco di cielo. Tra levante e mezzogiorno il lago gira dietro un promontorio, un alto scoglio rossastro, a nascondervi la sua fine oscura; piccolo lago di misura e di fama, ambizioso però e orgoglioso della sua corona di monti, appassionato, mutabile; ora violetto, ora verde, ora plumbeo; talvolta, verso la pianura anche azzurro. Là è il suo riso, là si colora delle nuvole infocate al tramonto e brilla d’una sola fiamma quando il vento meridiano lo corruga sotto l’alto sole d’estate. Da tutte l’altre parti si spiegano i manti delle montagne boscose sino alla cima, macchiate da cenerognole scoscenditure di scogli, da ombre di valloni, da praticelli di smeraldo. A levante il lago mette capo a una valle; i monti vi ascendono a scaglioni verso l’Alpe dei Fiori, lontane rocce dentate che tagliano il cielo. Dentro quella valle, a breve distanza del lago, si vede la chiesa di un paesello; e anche dal lato opposto, sul ciglio della costa che scende a morir nelle praterie, biancheggia un campanile fra i noci.
Alle spalle del Palazzo il piccone e il badile hanno vigorosamente assalita la montagna e conquistatone il cortile semicircolare, dove mormora un getto cristallino che ricade ondulando tra gli eleganti gynereum e le ampie foglie degli arum, quasi fiore animato di quella vegetazione tropicale. Altri due grandi mazzi ovali di fiori e di foglie si spandono ai lati di questo, fuor dalla ghiaia candida e fine. Per le muraglie di sostegno addossate al monte serpeggiano e s’incrocicchiano le mille braccia delle passiflore, delle glicine, de’ gelsomini, fragili creature amorose che cercano dappertutto un sostegno e lo vestono, grate, di fiori. Due fasci di passiflore si abbrancano pure agli angoli interni dei due fabbricati e salgono a gittar le frondi scarmigliate sin dentro la loggia.
A mezzo della muraglia di sostegno, propriamente in faccia alla loggia, sale il monte tra il versante di mezzogiorno e quello di ponente un’ampia scalinata a ripiani, fiancheggiata di cipressi colossali e di statue. A destra e a sinistra si stendono reggimenti di viti, allineate in ordine di parata. Alcuni dei cipressi han perduto la cima e mostrano la fenditura nera d’un fulmine; i più sono intatti e potenti nella loro augusta vecchiaia. Paion ciclopi enormi che scendano solennemente dal monte a lavarsi; e mettono intorno a sè il silenzio dello stupore.
Delle statue, appena otto o dieci durano su piedestalli, mascherati da fitti domino d’edera. Ne stendono fuori le braccia ignude e accennano, simili a minacciose sibille o piuttosto ninfe già sopraffatte e irrigidite da una strana metamorfosi. Il figlio del giardiniere seguiva quest’ultima interpretazione e usava porre loro in mano dei fasci di erbe e di fiori. A sommo della scalinata sta un’ampia vasca appoggiata ad una elegante parete greggia a mosaico bianco, rosso e nero, ripartito in cinque arcate intorno ad altrettante nicchie, ciascuna con la sua urna di marmo; in quella di mezzo una Naiade ignuda e ridente si curva sull’urna, la inclina col piede; e n’esce a fiotti l’acqua che dalla vasca è condotta per un tubo nascosto a zampillare nel cortile, tra i fiori. Sul piedestallo della statua sono incise le famose parole di Eraclito:
panta réi.
Dalla biblioteca, posta all’estremità di ponente della villa, si esce ad un giardinetto pensile coperto quasi tutto dall’ombra d’una superba magnolia. Una scaletta scoperta ne discende al cortile presso alla porticina della darsena e al cancello d’uscita. Si va di là, per un’umile stradicciuola, a R...
All’altro capo della villa una massiccia balaustrata corre sul dorso agli scogli sporgenti dall’acqua. Dentro dalla balaustrata è un gran viale; dentro dal viale una lista di aiuole fiorite, quindi un’alta e spaziosa serra d’agrumi che nella buona stagione manda i suoi avamposti, certi enormi vasi di limone, a specchiarsi dai pilastrini della balaustrata nel lago chiaro. In fondo al viale il muro di cinta è dissimulato da una selvetta di abeti che lo accompagna su pel monte, come un nastro nero, avvolgente la casetta del giardiniere presso il cancello, che mette, per un ripido viottolo conosciuto da noi, alla strada provinciale.
Con i suoi cipressi, con le vigne, con la collana d’abeti, con il lago a’ piedi, la villa sarebbe assai graziosa a guardare in fotografia a traverso le lenti d’uno stereoscopio, se la scienza sapesse riprodurvi i verdi cupi e i brillanti, le acque diafane e il mobile riverbero del sole sulle vecchie mura. Si potrebbero immaginare davanti alle sue finestre ampie distese di lago, felici paesi, altre ville, altri giardini ridenti fra l’acqua e il cielo. Anche veduto con la sua scena solitaria e severa, il Palazzo non è triste. Fuori del recinto le sponde che guardano mezzogiorno verdeggiano di ulivi frequenti, parlano di dolci invernate: e per la gran porta aperta laggiù verso la pianura dove il sole tramonta entrano le immagini e quasi il suono della intensa vita delle opere umane; per là escono gli occhi e l’anima quando non ha bisogno di veder lontano, d’immaginare liberamente. Il Palazzo domina quel deserto con la sua grandiosità signorile: chi vi abita può credersi padrone di quanto vede, credersi un re superbo a cui nessuno osa accostarsi, i monti difendono il trono e le onde lambiscono i piedi.
— Dicono che non è male la vista qui — disse il conte entrando in loggia con Silla. — Pare anche a me sufficientemente passabile. Leggete là. — Gli additò una lapide sopra l’arco posteriore di mezzo.
Silla lesse:
EMANUEL DE ORMENGO
TRIBUNATU MILITARI APUD SABAUDOS FUNCTUS
MATERNO IN AGRO
DOMUM
MAGNO AQUARUM ATQUE MONTIUM SILENTIO CIRCUMFUSAM
AEDIFICAVIT
UT SE FESSUM BELLO
POTENTIUM INGRATITUDINE LABORANTEM
HUC
VESPERASCENTE VITA RECIPERET
ATQUE NEPOTES
IN PARI FORTUNA
PARI OBLIVIONE
FRUERENTUR
— Eh! — esclamò il conte, ritto, dietro Silla, sulle gambe aperte e con le mani congiunte sul dorso. — Questo mio buon bisavo ha assaggiati e sputati i re, come vedete. È per questo che io non ne ho mai voluto rigustare, e credo non servirei un re, se non quando dovessi scegliere tra lui e il canagliume democratico. Un uomo di ferro quello lì. Non c’è che principi e democrazie per rompere e buttar via uno strumento simile. Uuh! Voi non credete quello?
— Io sono devoto al re — rispose commosso il giovane — e mi sono battuto con lui per l’Italia.
— Ah, per l’Italia! Molto bene. Ma Voi mi dite il caso di un giorno e io parlo di istituzioni che si giudicano sulla testimonianza dei secoli. Anch’io tengo un segretario democratico e gli voglio molto bene perchè è il più buono e onesto bestione della terra. Del resto se avete un ideale non lo voglio guastare, qualunque esso sia, perchè senza ideale il cuore cade nel ventre.
— E il Suo ideale? — disse Silla.
— Il mio? Guardate un poco.
Il conte si affacciò al parapetto verso il lago.
— Voi vedete dove ho scelta la mia dimora, tra le manifestazioni più alte della natura, in mezzo ad una magnifica aristocrazia che non è punto ricca, ma è potente, vede molto lontano, difende le pianure, raccoglie forza per la vita industriale del paese, genera aria pura e vivificante, e non prende niente per tutti questi benefizi, altro che la sua preminenza e la sua maestà. Io non so se voi capite ora qual è il mio ideale politico e perchè vivo fuor del mondo; res publica mea non est de hoc mundo. Andiamo.
Il conte era un cicerone diligentissimo, faceva osservare a Silla ogni menomo oggetto, che potesse parer notevole, spiegava i concetti dell’antenato di ferro, fondatore del Palazzo, come se avesse abitato nel suo cervello. Quel vecchio soldato aveva fatto le cose da gran signore. Casa d’inverno, casa d’estate; tre piani per ciascuna: cucine, cantine, magazzini ed altre stanze di servizio affondate a mezz’altezza nel suolo; scalone architettonico nell’ala di levante; grandi sale di parata ai primi piani. Queste erano state dipinte con fantasia sgangherata da un ignoto pittore che vi aveva tirato giù delle architetture romanzesche, tutte logge, terrazze e obelischi, roba dell’altro mondo; e delle farraginose scene militari, certe zuffe di cavalleria assai lontane dai precetti di Leonardo, scorrettissime nel disegno, ma non prive di vita.
— Sento — disse il conte facendole vedere a Silla — sento dai miei buoni amici che questo pittore è stato un goffo; anzi qualcuno si degna di dire un bue. Io non me ne intendo niente, ma mi fa molto piacere di udire quello, perchè non amo gli artisti.
Verissimo; non li amava, nè li intendeva. Possedeva molti quadri, alcuni dei quali, eccellenti, raccolti in gran parte da sua madre, nata marchesa B... di Firenze, che amava la pittura con passione. Il conte non ne capiva un iota e faceva sbigottire i suoi amici, snocciolando pacatamente le maggiori empietà. Avrebbe voltato di buon grado con la faccia al muro un ritratto di Raffaello e fatto fodere di un Tiziano; non ne gustava la vista più che della tela greggia e non avrebbe nascosto, per tutto l’oro del mondo, il suo pensiero. Gli erano meno odiosi i pittori arcaici, perchè li trovava meno artisti, più cittadini. Non sapeva poi ragionare questo suo giudizio. Aveva invece in uggia particolare la pittura di paesaggio che stimava indizio di decadenza civile, arte ispirata dallo scetticismo, dal disprezzo dei doveri sociali e da una specie di materialismo sentimentale. Non era uomo da disperdere i quadri prediletti da sua madre, ma li teneva prigionieri in un lungo corridoio al secondo piano a tramontana, sopra la sala da pranzo, dove aurore e tramonti s’intirizzivano nelle loro cornici dorate.
Nell’entrare per uno dei due usci che mettono capo a questo corridoio, parve a Silla che qualcuno fuggisse per l’altro; vide un lampo negli occhi della sua guida. Le tre finestre del corridoio erano spalancate; ma, poteva venire dalle finestre quell’odore di mown-hay?
Uno degli antichi seggioloni di cuoio addossati alle pareti a eguali intervalli e spiranti gravità prelatizia, era stato trascinato per isghembo vicino alla finestra di mezzo, in faccia a un Canaletto meraviglioso; e sul davanzale della finestra c’era un libro aperto, tutto sgualcito ma candidissimo.
— Vedete — disse il conte, chiudendo tranquillamente le invetriate della prima finestra — io tengo qui delle possessioni strabocchevoli. Tengo montagne, boschi, pianure, fiumi, laghi e anche una discreta collezione di mari.
— Ma qui — esclamò Silla — vi sono tesori!
— Ah! la tela è molto vecchia e d’infima qualità.
Così dicendo il conte mise il seggiolone a posto.
— Ma come, tela! Ma questo soggetto veneziano, per esempio?
— Neppure Venezia mi piace, che pure, assicurano, vale qualcosa. Pensate questo!
Prese il libro ch’era sul davanzale della seconda finestra; lo chiuse, guardò il frontespizio, e, come facesse la cosa più naturale del mondo, lo gettò nel cortile, e chiuse la finestra. In quel punto si udì un colpo furioso, un frangersi di lastre, un grandinar di vetri rotti sulla ghiaia. Il conte si volse a Silla continuando il suo discorso come se nulla fosse stato. — Io non ho mai potuto soffrire quella lurida, puzzolente, cenciosa città di Venezia, che perde a brani il suo manto unto e bisunto di vecchia cortigiana, e mostra certa biancheria sudicia, certa vecchia pelle schifosa. Voi dite in cuor vostro: quest’uomo è una gran bestia! Non è vero? Sì, me lo hanno fatto capire degli altri. Ooh! naturalmente. Notate che io sono un grande ammiratore de’ veneziani antichi, che ho parenti a Venezia e forse qualche poco di sangue veneziano nelle vene, del migliore. Che volete? Sono un animale grosso ma nuovo in Italia, dove, grazie a Dio, le bestie non mancano. Dove trovate un italiano bastantemente colto che vi parli come vi parlo io dell’arte? La grande maggioranza degli uomini educati non ne capisce niente, ma si guarda molto bene dal confessarlo. È curioso di star ad ascoltare un gruppo di questi sciocconi ipocriti davanti ad un quadro o a una statua, quando fanno una fatica del diavolo per metter fuori dell’ammirazione, credendo ciascuno di aver che fare con degli intelligenti. Se potessero levarsi la maschera tutti ad un tratto, udreste che risata!
S’affacciò alla terza finestra, e chiamò:
— Enrico!
Una voce quasi infantile rispose dalla cucina:
— Son qui! Vengo!
Il conte attese un poco, e poi disse:
— Portami su quel libro.
Quindi chiuse la finestra.
Silla non si poteva staccare dai quadri.
— Starei qui un giorno — diss’egli.
— Anche voi?
Anche! L’altro chi era? Era forse la giovane signora di cui gli aveva parlato il vetturale? Il seggiolone fuor di posto, il libro, il profumo di mown-hay erano indizi del suo recente passaggio? Quella porta chiusa in fretta, quel lampo negli occhi del conte?... Silla non aveva ancor visto al palazzo che il conte, Steinegge e i domestici. Nessuno gli aveva nemmanco parlato d’altre persone.
Alcune ore più tardi, dopo aver girato per lungo e per largo il palazzo e il giardino senza trovar nessuno ed essersi ritirato per qualche tempo nella sua stanza, notò, entrando nella sala da pranzo, con il conte e Steinegge, che quattro posate erano state disposte ai quattro punti cardinali della tavola. I commensali nord, sud e ovest presero il loro posto; ma l’ignoto commensale dell’oriente non compariva. Il conte uscì, tornò dopo dieci minuti e fece portar via la posata.
— Credevo che avrei potuto presentarvi mia nipote — diss’egli a Silla — ma pare ch’ella non si senta bene.
Silla disse una parola di rammarico; Steinegge, rigido più che mai, seguitò a mangiare, tenendo gli occhi sul piatto; il conte pareva molto rannuvolato, e persino il cameriere che serviva aveva una fisionomia misteriosa. Per quasi tutto il pranzo non si udì nella sala scura e fresca che il passo ossequioso del cameriere, il tintinnìo delle posate e dei bicchieri che si allargava tra gli echi della volta. Per le finestre socchiuse entrava un ampio strepito di cicale, si vedevano brillar nel sole le frondi del vigneto, cangiar colore l’erbe piegate via via dal vento. Là fuori si doveva stare più allegri.