Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/II. La forma della Divina Commedia

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - II. La forma della Divina Commedia

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Lezione II

LA FORMA DELLA DIVINA COMMEDIA


Abbiamo veduto per quali stadii son passate le visioni anteriori a Dante, come partendo dal puro elemento religioso vi si sia poi tramescolata la politica e la scienza, e come dalla pura forma del sentimento si sia caduto nel fantastico e di quivi nell’allegorico e nello scolastico. La Divina Commedia soprastá a tutte inestimabilmente per l’eccellenza della forma.

Né giá la forma, come si crede volgarmente, è posta nell’estrinseco della elocuzione e della lingua. La forma è il divino, lo spirituale, il Deus in nobis, che si estrinseca e s’incorpora, e, se mi è lecito di usare una frase sacra, è il verbum factum caro: senza di lei la materia è un arbitrario, un molteplice, un vuoto e morto aggregato meccanico: ella è sua vita, sua anima, sua unitá organica. Ma nell’esame della forma dantesca noi non seguiremo il metodo della critica antica, di cui si può vedere un saggio nel modo come il Tasso difende e come i suoi awersarii censurano la Gerusalemme liberata.

La critica antica comincia dal porre alcune regole generali, e quelle applica senza distinzione di materia e di tempo: onde i paragoni ch’essa fa con tanta serietá tra cose disparatissime, tra l’Orlando e la Gerusalemme, tra il Paradiso perduto e l’Iliade. É noto il potere che hanno avuto le regole sopra i piú nobili ingegni ed il torto indirizzo ch’esse hanno dato sempre piú alla critica, insino a che, risoltesi in un cieco e meccanico dommatismo, soggiacquero agli assalti della critica romantica. [p. 11 modifica]

Ogni rinnovamento intellettuale o sociale è preceduto da un movimento negativo o dissolvente: il primo effetto della nuova critica fu la negazione delle regole, un dispregio assoluto di esse, e quindi la scorrezione e la licenza. Cosi la critica moderna cominciò anch’essa dall’essere sistematica, parziale, esclusiva, tirannica; il tempo dell’esagerazione è finito. Ed oggi, alzatasi ad una unitá superiore, da una parte, in luogo del rispetto tradizionale e passivo per gli antichi, ella ha in noi destata una conscia ammirazione verso di quelli ed ha restituita l’autoritá delle regole, riavvicinandole a’ loro principii generatori e vivificando cosí la lettera morta; e dall’altra parte ha saputo mantenere all’arte tutta la veritá e la freschezza della vita moderna. Ma le regole formali o le leggi del bello, ch’ella non solo non disconosce, anzi pone su fondamenti piú alti e piú saldi, non vogliono essere applicate nella loro generalitá, come faceva la critica antica e come si fa anche oggi nelle nostre scuole. Le regole generali sull’invenzione, sull’ordine, sugli affetti, sul decoro, sulle figure ecc., sono mere astrazioni, quando voi me le segregate dalla materia, in cui solo hanno la loro veritá. La forma vive nel seno stesso della materia; ciascun argomento ha in sé la sua poetica, cioè le sue leggi organiche, le sue condizioni vitali, in cui è posta la sua personalitá, quello per il quale esso è sé e non altro: e quel lavoro è perfetto che è come un individuo compiuto, proprio ed incomunicabile.

Ogni subbietto ha in sé la sua bontá, la sua veritá, la sua bellezza; ed il vero poeta è quello che, rapito in amore, sa coglierlo nella sua personalitá, abbandonandovisi ingenuamente; siccome il vero critico è quello che, stimolato dall’ammirazione, si affisa nel suo argomento e ne fa emergere non leggi pure ed astratte, ma bellezze condizionate ed individue.

Il cattivo poeta, al contrario, si accosta al suo subbietto con questa o quella preoccupazione, vi fa su un lavoro analitico ed astratto, squallido, senza colore, senza fisonomia, senza corpo, come avviene a tutti gl’imitatori, che nel loro esemplare non sanno discernere altro che il comune né possono cogliere quello che ivi è di concreto, di personale, e perciò d’incomunicabile. [p. 12 modifica]E parimente il critico dotto, erudito, ma povero di gusto, con le sue regole generali innanzi, tutto misura ad una stregua, e pone nella stessa bilancia argomenti sostanzialmente diversi, guardando unicamente al generale ed al comune e non tenendo conto del differente in cui solo vive il generale.

Volendo dunque procedere all’esame della Divina Commedia, porremo a fondamento della nostra critica non la materia astratta, tabula rasa, l’anima di Locke e di Condillac, e neppure la forma vuota, le regole astratte, ma la materia condizionata e determinata, contenente in sé virtualmente la sua forma, che, fecondata amorosamente dal genio, prende unitá di persona.

L’argomento che un poeta elegge, considerato non nella sua vacuitá, ma come provveduto di leggi interne che determinano la sua esplicazione, costituisce, secondo il linguaggio estetico, la situazione del lavoro. L’intelligenza della situazione è proprio de’ sommi ingegni; i mediocri cadono spesso in falsa situazione, né questo è solo in poesia, ma in tutti gl’indirizzi della vita. La situazione è la parte fatale, cioè a dire sostanziale dell’argomento, che deesi andare esplicando cosí o cosí infino all’ultimo punto e che attira a sé irresistibilmente il vero poeta. Sbagliare la situazione è sbagliare essenzialmente un lavoro, quali che sieno i suoi pregi: in questo caso non basta cancellare, bisogna rifare. Voi vedete dunque di quanto momento è determinare la situazione, il dato, il presupposto, il necessario, che costituisce la base della Divina Commedia e da cui non si può discostare il poeta senza fallire alla veritá ed alla poesia.

Che cosa è la Divina Commedia? È la storia finale dell’umanitá, e, per dirla poeticamente, lo scioglimento e la catastrofe del dramma umano. Il sipario è calato; la porta del futuro è chiusa; l’azione è finita; al vivo movimento della libertá è succeduta l’immutabile necessitá. Che cosa diviene in questo caso la natura, che cosa l’uomo? La natura in terra soprastá immobile ed indifferente al vario gioco delle umane passioni: disaccordo che l’arte talora ha cercato di vincere chiamandola con appassionata illusione a parte delle umane miserie, come quando innanzi al convito delle membra tiestèe il poeta grida al sole [p. 13 modifica]che si arresti e si copra la faccia; disaccordo che l’arte talora accetta come espressione di una disarmonia piú alta, dell’indifferenza del Fato agli umani dolori.

                                         E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l’inquieta notte e la funesta
All’ausonio valor campagna esplori;
Cognati petti il vincitor calpesta.
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu si placida sei?.....
               

Nell’altro mondo il disaccordo è cessato: la natura è ivi un teatro, che il poeta accomoda alla rappresentazione che vuol darci, conformandola al concetto morale che preesiste nella sua mente e di cui ella diviene immagine. Ella è un luogo destinato a premio o a pena, ed il suo significato traluce visibilmente di sotto al particolare: l’arte vi è trasparente, il velo si è assottigliato. La natura adunque non è piú colta nel suo immediato, nella irriflessa visione: vi è una logica prestabilita e visibile, secondo la quale ella è ordinata in conformitá del mondo morale. E che cosa diviene l’uomo? Nel mondo dell’immutabile non ci può essere azione: sarebbe un controsenso. Collisioni, intrighi, vicissitudini, catastrofi, tutto ciò che è consueta materia di poesia, non ha piú scopo. Quindi nella Divina Commedia non trovi né devi trovare un’azione che gradatamente si snodi di mezzo a’ contrasti, che tenga viva la curiositá e desti attrattivo e sospensione, qualitá per cui si leggono avidamente e quasi di un fiato l’Iliade, l’Orlando ed altrettali poemi e romanzi. In quella vece hai quadri staccati, ciascuno compiuto per sé; e come un personaggio ti desta interesse, ed eccotelo sparire davanti per dar luogo ad un altro, rapida fantasmagoria, dove succedono paesi a paesi e figure a figure. E Dante non solo non isforza il suo argomento per introdurvi un’azione fattizia; anzi quell’apparenza di azione che ivi [p. 14 modifica]ha immessa, il suo viaggio, egli l’ha gittata nell’ombra, ed il veggente sparisce innanzi alla grandezza della visione, sapendo bene quanto ridevole sarebbe stato fare sé centro e protagonista dell’immenso e sostituire un interesse peculiare alla storia del genere umano. Né solo ogni azione è spenta, ma ogni vincolo che collega gli uomini in terra è disciolto. Patria, famiglia, ricchezze, dignitá, titoli, costumi, istituzioni, mode, quanto nella societá è di artificiato e convenzionale, che pure è tanta parte di poesia, sfuma ne’ mondi dell’infinito: l’uomo vi è nudo, Filippo il Bello spogliato della sua porpora e Niccolò III della sua tiara. Onde la severa ed intima natura della poesia dantesca, nella quale, posta giú ogni estrinsechezza, l’uomo comparisce qual è, solo in cospetto della sua anima. Rapito al circolo delle affezioni e degl’interessi terreni, in cui caso o elezione lo aveva collocato, nella societá dell’avvenire egli si trova accanto i suoi simili d’anima, non di vesti o di titoli; e, guardando da questa altezza, noi vediamo cader giú ogni maschera e brillar senza nube quanto nell’umanitá è di eterno. Che cosa dunque rimane all’uomo nel mondo dantesco? Non altro che un sentimento generale di dolore e di gioia, senza successione, senza gradazione, senza contrasto, senza eco, quasi una interiezione: poesia descrittivo-lirica, descrizione di luoghi e di pene puramente esterna, collegata con una lirica indeterminata, piuttosto simile al vago delia musica che alla chiarezza della parola. Tali sono gli effetti fatali, ineluttabili, che nascono dalla situazione; e la gloria di Dante è di essersi lasciato rapire dal suo subbi etto, di averlo compreso e di avervi ubbidito con quella sicurezza istintiva che mai non inganna il poeta: di qui il proprio della sua poesia, che esce da’ cancelli aristotelici e pone in impaccio il Tasso, quando provasi a definirla.

Ma la nostra analisi non è ancora compiuta: andiamo innanzi.

Dante non è solo spettatore, il veggente, come nelle altre visioni: egli è uno degli attori; e la presenza di un uomo vivo nell’altro mondo modifica profondamente la situazione con vantaggio della poesia. Dante vivo penetra nei tre mondi, e porta [p. 15 modifica]seco tutte le sue passioni di uomo e di cittadino, e fa risuonare di terreni fremiti fino le tranquille volte del cielo: cosí ritorna il dramma, e nell’eterno riapparisce il tempo. Egli è come un ponte gittato tra il presente e l’avvenire: al cospetto di un uomo vivente le anime rinascono per un istante un’altra volta, e risentono antiche passioni e riveggono la patria e gli amici: Farinata dimentica il suo letto di fuoco. Casella scioglie la voce al canto e, dalla terrena melodia rapite, le ombre quasi obbliano di andare a farsi belle; Cacciaguida abita lungo tempo con la fantasia in Firenze e s’intenerisce a’ mali futuri del suo nipote. Cosi in mezzo all’immobilitá dell’avvenire vive e si agita l’Italia, anzi l’Europa del secolo decimoquarto, col suo papa e imperatore, coi suoi re, principi e popoli, co’ suoi costumi, con le sue passioni, con le sue discordie, con tutto quello che è in lei di alto o vile, di tragico o comico.

E il dramma di quel secolo scritto da un poeta, che è egli stesso uno degli attori, con la veemenza della passione e con la dignitá della convinzione: tal che spesso ci sentiamo rapire dal luogo ov’è collocata l’azione, e ci troviamo nel bel mezzo d’Italia, tra le tempeste ed il fremito della pubblica vita. Poesia unica, nella quale due mondi, terra e cielo, tempo ed eternitá, umano e divino, stanno di rincontro.

Questi due mondi si trovano l’uno accanto all’altro inconfusi, o il poeta ha saputo fonderli ed immedesimarli? Noi lo vedremo.