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la forma della divina commedia i3


che si arresti e si copra la faccia; disaccordo che l’arte talora accetta come espressione di una disarmonia piú alta, dell’indifferenza del Fato agli umani dolori.

                                         E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l’inquieta notte e la funesta
All’ausonio valor campagna esplori;
Cognati petti il vincitor calpesta.
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu si placida sei?.....
               

Nell’altro mondo il disaccordo è cessato: la natura è ivi un teatro, che il poeta accomoda alla rappresentazione che vuol darci, conformandola al concetto morale che preesiste nella sua mente e di cui ella diviene immagine. Ella è un luogo destinato a premio o a pena, ed il suo significato traluce visibilmente di sotto al particolare: l’arte vi è trasparente, il velo si è assottigliato. La natura adunque non è piú colta nel suo immediato, nella irriflessa visione: vi è una logica prestabilita e visibile, secondo la quale ella è ordinata in conformitá del mondo morale. E che cosa diviene l’uomo? Nel mondo dell’immutabile non ci può essere azione: sarebbe un controsenso. Collisioni, intrighi, vicissitudini, catastrofi, tutto ciò che è consueta materia di poesia, non ha piú scopo. Quindi nella Divina Commedia non trovi né devi trovare un’azione che gradatamente si snodi di mezzo a’ contrasti, che tenga viva la curiositá e desti attrattivo e sospensione, qualitá per cui si leggono avidamente e quasi di un fiato l’Iliade, l’Orlando ed altrettali poemi e romanzi. In quella vece hai quadri staccati, ciascuno compiuto per sé; e come un personaggio ti desta interesse, ed eccotelo sparire davanti per dar luogo ad un altro, rapida fantasmagoria, dove succedono paesi a paesi e figure a figure. E Dante non solo non isforza il suo argomento per introdurvi un’azione fattizia; anzi quell’apparenza di azione che ivi