Lezioni sulla Divina Commedia/Dai riassunti delle lezioni tenute a Zurigo nel 1856-57/Il Paradiso/Lezione VIII

Il Paradiso - Lezione VIII

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Lezione VIII

[L’elogio: S. Francesco e S. Domenico.]


La satira continua sotto la forma di elogio. Nel milledugento la Chiesa pericolante per interna corruzione e per eresie ebbe a puntello S. Francesco e S. Domenico, l’uno restitutore della povertá evangelica, l’altro combattitore intrepido contro l’eresia. Gli ordini da loro fondati erano giá degeneri a’ tempi di Dante, e rivali. Con satirica intenzione Dante fa fare a [p. 298 modifica]S. Tommaso, domenicano, l’elogio di S. Francesco, e a S. Buonaventura, francescano, l’elogio di S. Domenico

                                                                  .... Perocché d’amendue
Si dice l’un pregiando, qual che uom prende,
Perché ad un fine fur l’opere sue.
     

Cagione di rivalitá in terra e in cielo cagione di fratellanza tra il serafico ed il cherubico.

                                         L’un fu tutto serafico in ardore,
L’altro per sapienza in terra fue
Di cherubica luce uno splendore.
     

Questi due elogi sono poveri di poesia, perdendosi l’autore in accidentali particolari. Tale è la descrizione di Assisi, patria di S. Francesco; la quale ti fugge dinnanzi smarrita com’è in tanti particolari geografici e dove noteremo per altro il bellissimo verso:

                                    Fertile costa d’alto monte pende.      

S. Francesco amava la povertá, e l’autore trasforma la povertá in una donna, ed in luogo di rappresentare i sentimenti ti fa una fredda allegoria. Il racconto si anima quando si parla dell’entusiasmo suscitato da S. Francesco:

                                                        Il venerabile Bernardo
Si scalzò prima e dietro a tanta pace
Corse e correndo gli parve esser tardo.

Scalzasi Egidio e scalzasi Silvestro
Dietro allo sposo si la sposa piace.
     Indi sen va quel padre e quel maestro
Con la sua donna e con quella famiglia
Che giá legava l’umile capestro.
     Né gli gravò viltá di cuor le ciglia
Per esser fi’ di Pietro Bernardone,
Né per parer dispetto a maraviglia.
     
[p. 299 modifica]Né meno belli sono gli ultimi suoi momenti:
                                         Quando a colui che a tanto ben sortillo
Piacque di trarlo suso alla mercede,
Che ei meritò nel suo farsi pusillo,
     A’ frati suoi, siccome a giuste erede,
Raccomandò la sua donna più cara,
E comandò che l’amassero a fede.
     

Certo in questa vita vi è qualche cosa di poetico, ed è il sublime disprezzo del santo per le cose terrene, quel suo combattere contro il proprio corpo, che egli chiamava il suo asino, come a nemico. Ma questo concetto perde di efficacia nella forma allegorica che gli ha dato il poeta. Né meno fredda è la parte satirica, espressa per via di una metafora continuata troppo lungamente.

                                         Ma il suo peculio di nuova vivanda
E fatto ghiotto si ecc.
     

Succede l’elogio di S. Domenico, «l’amoroso drudo | della fede cristiana, il santo atleta | benigno a’ suoi ed a’ nemici crudo». La grandezza del concetto si rivela in questi belli versi:

                                    Con l’uffizio apostolico si mosse
Quasi torrente che alta vena preme
     E negli sterpi eretici percosse
L’impeto suo piú vivamente quivi
Dove le resistenze eran piú grosse.
     

Ma il resto si perde in particolari di poco interesse, come il sogno della madre e della comare, e le allusioni che fa al nome del santo e del padre Felice e della madre Giovanna. Appena qualche breve tratto satirico gitta un po’ di vita in tanta languidezza di racconto:

                                         Non dispensare o due o tre per sei,
Non la fortuna di primo vacante,
Non decimas quae sunt pauperum Dei.