Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/LXVII
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LXVII.
ALLA STESSA
a Porto
2 Febbraio (1837)
Marianna mia,
È vero che ricevetti la tua del 27 agosto, ed è vero che non vi risposi, perchè le cose stavano per cangiarsi costi, poi si cangiarono, poi vidi che saresti andata in Oporto e non sapeva quando, sicchè io smaniava di dirti che non ti dimentico mai mai, che penso sempre a te con grandissimo affetto e con dolore vivissimo, chè la tua lontananza mi fa tanto male! Oh non puoi credere quanto mi affligga questo pensiero, e il vedere la diletta tua immagine al di là dei mari, ove io non posso raggiungerti, nè le mie braccia possono stringerti al mio seno! Immagina dunque quanto mi abbia rattristata il sentire che non tornerai per lungo tempo, io sperava che nella primavera saresti di ritorno fra noi; ora chi sa quando mai sarà! Ma se tu stai bene assieme con tutti i tuoi, se gli affari ti vanno bene, se tu sei quieta e tranquilla, guardandoti cautamente dal mondo che ovunque è tanto cattivo, io sarò contenta, e starò aspettando che un vento propizio ti conduca in Italia ove pure potrò sperare di vederti una volta prima di morire, e prima che tu ti stanchi della tua vita girovaga. Ma quanto mai invidio questa tua vita! Davvero ora vedo bene che tutto è vanità a questo mondo come a’ tempi di Salomone, e per questo se potessi mettermi in un legno di posta, e girare tutto il mondo (scendendo qualche volta per prender posto su qualche bastimento) per quei pochi anni che mi restano a vivere, vivendo sempre sola, e vedendo, vedendo sempre sempre le bellezze e le bruttezze della natura, oh allora si che sarei felice. Perchè, non puoi credere quanto mi abbia tormentata sempre il pensiero che vi sia qualche cosa a questo mondo ch’io non vedrò mai! e se queste cose poi sono belle, belle assai, come le ghiacciaie della Svizzera, il cielo di Napoli, un’aurora boreale e Pietroburgo, immagina quanto devo penare io che non posso arrivare ancora a vedere tutti i bei punti di vista di questo mio villaggio, che non sono pochi, e quanto soffro nel reprimere i palpiti del mio cuore e gli slanci della mia immaginazione tutte le volte che m’incontro a leggere dettagli di viaggi, descrizioni di luoghi ameni, e allora piango e gitto via il libro, poi non so darmi pace di questo triste mio stato, e di questa vita monotona e uniforme da morire. E sempre più invidio la sorte dei contadini, ai quali la loro testa non dà punto tormento come la nostra a noi, che ne fa passare tutti i giorni pieni di desiderii ardenti che non giungeranno mai a realizzarsi. Ma perchè ti vado parlando dei miei delirii, e non parlo di te, di te, mia carissima, ch’io vorrei veder lieta e felice virtù, per la quanto lo meriti per le rare tue tua bontà angelica? Oh lascia ch’io ti abbracci e ti stringa tenerissimamente al mio cuore, e questo cuore ti dica quanto mai gli sei cara, quanto mai egli ti ami.
Noi abbiamo un inverno mitissimo, direi un caro inverno, se queste due voci potessero stare insieme. Credo che non potrai dire lo stesso di costi, chè si leggono cose grosse del freddo della Spagna e di altrove. Il Cholera ci è stato vicinissimo, quasi nel nostro territorio, contiguo ad alcuni nostri poderi; pure la misericordia divina e Maria S.S. ce ne hanno preseverati, ma abbiano passato dei giorni tristi assai. Tutti di mia famiglia stanno bene, e Giacomo che si è lasciato chiudere dal cholera a Napoli forma il nostro dolore continuo. È andato in villa e viene scrivendo, ma di rado: Iddio ne aiuti! Non dubito affatto che anche tu avrai pianto sulla morte della povera Malibran: povera donna, quanti sospiri, quanti regrets ha cagionato quella improvvisa morte! Marianna mia, salutami caramente il papà tuo, abbracciami Nina, e non ti scordare della tua Paolina la quale non si scorderà mai di te, della cara ed amata tua famiglia ch’io considero da gran tempo come parte della mia. Addio dunque, miei cari!