Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/LX
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LX.
ALLA STESSA
a Bologna
9 agosto (1835)
Marianna mia,
Non istare in pena per la carissima tua diretta al povero Sanchini, chè essa mi fu recapitata immantinente. Toccava a me a compiangere la perdita di quella cara lettera, ove realmente essa si fosse smarrita, essa è piena di troppo cari ed amati dettagli, perchè io non ne avessi a regretter amaramente la perdita. Oh! ti ringrazio assai, Marianna mia, della bontà e della pazienza tua nel narrarmi tutto quello che mi narri, nel farmi assistere ai preparativi per la festa di Nina, nell’invitarmi a pranzo con tanta amorevolezza (ma io non potei venire. proprio non potei), nel farmi vedere il regalo preparato per quella briccona...... solo, in tanta distanza, non potei capire certi versi, parto di una giovine musa (il di cui muso bacio e ribacio) ma spero che me li mostrerai.
E tocca a to Ninetta mia il mostrarmeli; già son sicura che non ti farai rossa come non ti facesti rossa all’udirli, al ricevere il bel regalino che ti fu fatto, e al vedere quello che rappresentava. Mirabile dictu! Nina non arrossì, ma se lo pose subito, e la sera il povero signor Gaetanino glie lo vide portare e ne rise esternamente, ma di dentro fremeva. Povera Nina, mi vuoi bene? dimmelo presto altrimenti m’inquieto assai assai.
Addio.
Poi, Marianna mia, ti ringrazio dell’amor tuo, il quale ha voluto confortarmi nel dolore che provo. Oh vicino a te molti dolori mi verrebbero scemati e molte lagrime asciugate, ma io son avvezza tanto poco a parlare, che quando avviene talvolta che parli un poco, la gola mi avvisa che ho parlato troppo, chè tosto mi si riscalda, e prima non era così....
Ma com’è possibile ch’io ti abbia finora parlato di tutt’altro che di quel dolore che mi sta fitto in cuore? Oh miei cari, non andate a Genova! Non so se Iddio vorrà permettere che noi siam liberi da quest’orribile flagello che ne minaccia; ma quell’andargli incontro è cosa che mi fa raccapricciare. Certo, quest’anno è stato cattivo per te, e prometteva di essere tanto buono, ed io fui tanto lieta quando ti sentii fermata per Genova, poi non ti so descrivere il dolore che provai, il brivido che mi scorse per le vene quando sentii vero il chelera di Nizza, e pensai a te, Marianna mia, che dovevi andare verso quelle parti. Oh certo io non avrò pace finchè non mi dirai: non andiamo più! e allora, dopo il piacere, la gioia che ne sentirò, penserò alla perdita che farai di quel danaro, ma pazienza, è quello un pensiero assai più sopportabile.
Non ti dirò niente della tristezza infusa dal timore del cholera: già non si deve aver paura, e per me io non l’ho, perchè il morire non mi spaventa, mi spaventa bensì il veder morire. Ma pensiamo ad altro. Diamo addio alla Pantarelli e alla graziosa sua Alaide, e crediamo pure di non vederla più, già mostrano di avere poco giudizio. Era male se avessi lasciato il tuo cuore a Ravenna, ma giacchè l’hai riportato tutto con te, va bene. Certo, vorrei insegnare io a quel signorino di non venire più a disturbare le ragazze colle sue confidenze, si vede bene ch’ei non conosce il mondo, o che non sa leggere negli occhi tuoi; i miei non avrebbero saputo nascondere il ribrezzo che quei discorsi mi cagionavano. Fa che papà riprenda le sue forze, fallo mangiare un pochino di più, salutamelo tanto tanto assieme con Mamà e la cara Nina, e tu, mia carissima, vieni ch’io ti bacio con tutta l’anima mia. Non andare a Genova, per carità.