Lettere (Sarpi)/Vol. II/136

CXXXVI. — A Giacomo Leschassier

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CXXXVI. — A Giacomo Leschassier
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CXXXVI. — A Giacomo Leschassier.1


Il corriere di Lione non ci portò quel fascetto delle tre lettere del Legato, ma giunse a noi (e non so per quale altra via) il 15 d’aprile; nel qual giorno ricevei le sue lettere del 24 marzo. Di già pel corriere ordinario avevo scritto al signor Castrino, che niuna sua lettera mi era pervenuta, e lo pregava a ragguagliar di questo anche Lei.

L’ultima sua mi fu grata oltre modo. Con grandissimo piacere vidi la formola delle lettere del Senato di Provenza; e approvo con tutto l’animo che nel concederle si servano di un pubblico contradittore. Presso di noi fa ostacolo a potervi imitare il costume diverso. Pure brigherò (e penso riuscirvi) acciocchè il prefetto, a cui indirizza il Principe le sue lettere, pigli informazioni dal fiscale; e di qui forse tal fiata verrà che egli proponga qualche cosa in contrario, che da ultimo si rapporti al Senato, e così pongasi in essere l’uso del dare il possesso con cognizione: nel che veramente è il bandolo della matassa.

Le debbo e le fo infiniti ringraziamenti, a nome ancora di più persone, per l’inviatomi esemplare delle Lettere Patronali con più nomi. Validissima è, com’Ella avverte, la ragione del signor Menino, cavata da un’antichissima osservanza non contraddetta, e perciò approvata dai pontefici che la conoscevano. Niente è più autorevole della consuetudine; essa sola è legge. Il giure scritto è una larva, se a [p. 56 modifica]quella non s’appoggi. Ma guardi per che ginepraio io vo camminando. M’è forza servirmi di cotesta ragione con grandissima discretezza; perciocchè, in quella guisa che a me sta a cuore di assodare le usanze, gli avversari vanno per tal via patrocinando gli abusi. Io miro a questo: che i benefizi si conferiscano soltanto agl’indigeni, e non si gravino di pensioni. La pratica opposta ha causato intollerabili sconci, che sono difesi studiosamente dai romaneschi, pel motivo che così adoperano i pontefici, sapendolo, vedendolo nè facendo contrasto il Principe, il popolo e il clero. A me non mancano solidi e reali argomenti per mettere in luce la differenza; poichè la legge naturale non può dalla consuetudine abrogarsi nè infievolirsi. Non fo in vero quanto vorrei, ma qualche cosa pur fo.

Rispetto a ciò ch’Ella mi domanda circa la glossa, ove dicesi che il possessorio di cose spirituali è cosa temporale, io parlai secondo l’uso italiano. Noi diciamo spesse volte testo celebre, o glossa celebre, non perchè illustre ma perchè sfruttata, allegandosi di sovente nel medesimo senso. I nostri giureconsulti, e in specie del secolo precedente, non citano quasi mai; e se talora lo fanno, Ella riscontrerà che le allegazioni toccano il vero senso. Laonde coloro che sono di più squisito giudizio, quando i più interpretano un testo in senso non netto, lo allegano sì in quei termini, ma soggiungono: — è un testo celebre; — e ciò vuol dire che nella stessa significazione è riportato spesso dai dottori; comecchè a perfezione sappiano che essa è fuori del vero. Tale sarebbe la 6 l. de hom. in 6, contro gli uccisori per mezzo di assassini, un [p. 57 modifica]press’a poco come quei Musulmani che dànno da fare in Siria; e quasi tutti i giurisperiti d’Italia lo voltano agli ammazzatori per isborso di denaro. Se a me stesse il provare che un cherico il quale per denaro ha fatto uccidere altrui, è degradato ipso jure, direi senza meno: « v’ha il testo celebre 6 l. de hom. in 6;» inteso, cioè, comunemente così dagl’insegnati. Ora a noi. Ci ha la glossa 6. Literas de Jur. calum. la quale si allega per ordinario a significare che il possessorio di cose spirituali è un che di temporale. V.S. vedrà che Covarruvias, ed altri non trascurati, citano di questo tenore la glossa da me chiamata celebre. Se poi mi si chiedesse un giudizio sulla intelligenza esatta della glossa, lo emetterei francamente. Dallo accennar che fa la glossa, — sebbene in ordine alle cause spirituali non si giuri per calunnia, pure se si trattasse del possessorio, si giurerebbe per una cosa spirituale, — argomentarono i dottori: «Dunque, il possessorio di cosa spirituale non è spirituale, perchè non si giurerebbe per calunnia.» A me la conseguenza non pare necessaria, potendo le parole ricevere senza stiracchiatura un altro valore; cioè: in causa spirituale non si giura per calunnia, ma da questa regola si eccettua la causa possessoria di cosa spirituale; e certo è che ciò che si eccettua, appartiene alla stessa natura di quello che comprendesi nella regola. Per lo che, se taluno volesse dimostrare per quella glossa, essere spirituale il possessorio di cosa spirituale, non gli darei sulla voce, ma per l’unica ragione di questa pratica dello interpretare.

Quanto poi al mettere in un mazzo, come la [p. 58 modifica]S.V. fa, giurisprudenti e teologi abusatori dei luoghi biblici, se mel permette, io stimo che se n’abbia a far diverso giudizio, i secondi biasimando e scusando i primi. Io metto i teologi nella categoria di coloro che abusano le cose altrui, e viceversa i giureconsulti. La parola del Signore dura in eterno, nè agli uomini è dato abolirla o mutarla; ma le leggi soggiacciono all’uso, che (quali ch’esse sieno) vale ancora a distruggerle. Che meraviglia, perciò, se con sapiente e opportuna interpretazione s’acconcino alle circostanze e agli eventi? Di questo mi ha erudito la romana curia, dacchè divenne più savia. Una volta, niente più costumava che ritirare o derogare o canoni o costituzioni: sconcio fecondo d’infiniti spregi. Ora si guarda bene dal farlo: li ha invece in altissima venerazione, ma pure ne piega lo esplicamento a suo prò. E così si fa del Concilio di Trento. Ma che dirassi, quando la interpretazione fa a calci col testo? L’obiezione non è a proposito: se la legge non ne riceve reale onoranza, nemmanco le si fa ingiuria manifesta. Ma troppo ho divagato in queste ciance: ritorno al proposito.

Ho letto parecchie volte il libro delle Pratiche del Covarruvias, e segnatamente il capitolo 33; nè mai posi mente là dove dice che altri scrittori spagnuoli avevan preso a patrocinare la prassi dei tribunali regi. Gli avvisi da Lei dati non saranno invano: io farò sicuramente indagini e avrò alle mani codesti autori. Se saranno pubblicate le risposte del Vamesio2 [p. 59 modifica]per la fiera di Francfort, e i nostri librai ne faranno provvista, starò attendendole. Risi della burletta da voi altri fatta alla curia romana; la quale fa pur sempre il suo mestiere. E davvero, penso che il maestro del sacro palazzo operasse all’avventata; dacchè sono sì facili e ardenti nel porre a divieto i libri, che scambiano spesse volte l’uno per l’altro. Vogliono soli la padronanza sul pensiero che è messo in istampa.

Ella si maravigliò perch’io dissi che se guerra verrà addosso all’Italia, la romana curia proverà disfatta anche in mezzo a una gran vittoria; ma non è disaccordo fra simili concetti. Perocchè, se guerra sorgerà in Italia, non sarà senza concorso di molti dalla curia discordanti; e a questa toccherà a sostenere due guerre, l’una militare, letteraria l’altra; e se nella prima conseguirà vittoria, resterà di certo perdente nella seconda, non potendo per ogni dove dar mano a quegli argomenti di fuoco e di fune, che a lei tengon luogo di polizia e di rettorica.

Scrisse il signor Legato di avere spedito due esemplari di Polibio; nè però son giunti ancora, e il perchè non so. Voglio credere che non sieno andati perduti. Più presto mi perverranno, e più presto ne dirò grazie al signor Casaubono. Frattanto io le partecipo che tempo fa lessi alcuna parte di quel libro, e parvemi che niuno mai recasse con tanta chiarezza in lingua latina un’opera greca. Oserei dire senza iperbole, che il Polibio latino riesce più elegante e più lucido del greco. Parecchi esemplari qui ne capitarono, e sono letti e se ne loda a cielo l’interprete. Io aspetto i Commentari [p. 60 modifica]con vivissima brama, e la prego a salutare l’autore di essi e padron mio.

Tanto era già scritto prima dell’arrivo del corriere. Da esso ebbi le ultime sue gratissime dei 5 aprile, e non posso astenermi dal tornare a riscriverle: tanto è il piacere che godo a conversare con Lei! Sono impiegato in molte faccende e vo scrivendo assai, specialmente pel corriere di costà; ma a niuno più alla dimestica che a Lei. Imito in questo Cicerone, gettando giù quello che mi viene alla bocca: del rimanente, metto da banda ogni arte, e troverà spesso strapazzato Prisciano dalla mia penna. Ma tiro avanti, sicuro d’averne da Lei scusa e perdono. Quando, però, ringrazio, io discorro sul serio; che tal mi sono da obbligarmi in perpetuo a chi mi fa beneficio; e quel che da altri ho ricevuto, non mai m’induco a dir mio. E però non mi passo del ringraziare la S.V. per la legge rimessami di Lodovico XI, la quale mi accorgo, per una anche sbadata lettura, dover tornare assai profittevole alla mia intrapresa. Ella dice di sapere che i nostri nacquero nel servaggio, e che quale non ha gustato la libertà non ne conosce i vantaggi. E ciò costituisce il principale impedimento a’ nostri sforzi: ma pur la natura tira l’uomo al franco vivere, ancorachè veduto sott’ombra. È indubitato che, come la Chiesa si formò pel verbo, così pel verbo drittamente riformisi: pure, a quel modo che i gravi morbi si medicano per mezzi opposti, la fiducia nostra è tutta nella guerra. Imperocchè a mali estremi si convengano estremi rimedi. Creda pure a me, che le cose veggo assai da vicino: non d’altronde può venirci salvezza. Niente però può farsi fuori [p. 61 modifica]del tempo fermato da Dio, e senza i modi da lui prestabiliti. Io lo confesso, noi tuttavolta adoperiamo e pensiamo alla maniera umana. Dio vuole che ci travagliamo con affetti da uomo, e che siamo esauditi per consigli di cielo; nè io son uomo da credere che cosa alcuna possa avvenire quando non ha da essere. Questo ragionare affido al petto di un amico. E prego Dio che converta in atto quello che riuscir debba ad onor suo.

Vengo a dire della luna. Per verità, non ho letto ciò che ne scrisse il nostro matematico:3 spesso abbiamo conferito insieme su quell’argomento e molte osservazioni ci scambiammo. Aprirò ciò che penso, manifestando solo, come ho per costume, cose da me verificate. È incontrastato, che la terra mostra alla luna le stesse fasi, che la luna alla terra; sennonchè quelle della terra alla luna, derivando da maggior corpo, sono più valide. Quando la luna è nel mezzo al sole e alla terra, non si vede dalla terra; per contrario, quando la terra è nel mezzo al sole e alla luna, non vedesi dalla luna. E siccome la terra, quando è nei mezzo, vede l’emisfero della luna tutto lucido, così la luna, quando è intermedia, vede tutto illuminato l’emisfero della terra. Quando par che la luna si dilunghi dal sole per la quarta parte del circolo, apparisce mezza; quando poi ci sembra che la luna s’allontani dal [p. 62 modifica]sole per 30 gradi, la lontananza della terra ci si presenta per gradi 150. E così, quando la luna ci apparisce illuminata per 2 digiti, la terra si mostra alla luna illuminata per 10; e quando la luna decrescendo manifestasi alla terra illuminata per 10 digiti, la terra quasi crescendo si mostra alla lana illuminata per 2 digiti. Faccia conto di ragionare allo stesso modo sulle altre fasi, fino a che s’avrà procacciato idee sicure e familiari. Con questo dileguerà Ella il dubbio che viene dal veder noi la luna falcata e come semi-opaco il resto del corpo. D’onde mai quella luce? Io dico dalla terra, cui la luna vede illustrata per 2 o 10 digiti. Perchè poi non vedesi quella oscurezza nella mezza luna? Perchè il lume che piglia dalla terra è più debole, venendole solo dalla metà della terra. Da ultimo, come la luna più è vicina alla congiunzione e tanto minor lume comunica alla terra, questa ne offre un maggiore; e quando tende alla opposizione, quella cresce, la terra poi scema, finchè, tolta via, riesce massimo il lume della luna e nullo quello della terra.

Sulla domanda proposta dalla S.V. circa alla terra e all’acqua, quale delle due, cioè, riceva più luce dal sole e la riverberi, dirò brevemente. Se Ella riguarderà una grandissima massa d’acqua situata in luogo esposto al sole, vedrà la particella d’acqua su cui riflette il sole, illuminata alla pari di esso, e anzi ritrarne la immagine, e il luogo stesso, come la S.V. asserisce, splendere quasi sole; con oscurezza poi le si presenteranno le altre parti dell’acqua, cui percuote il sole. Se poi rimirerà altrettanta terra illuminata, le si mostrerà tutta a egual modo lucente; meno invero della particella d’acqua [p. 63 modifica]donde il raggio riflettesi, ma più del rimanente dell’acqua. Così ho parlato per servirmi del suo esempio; ma veniamo più dappresso all’argomento. Se Ella porrà di contro al sole, ma lungi da se, una pietra rotonda e uno specchio sferico della stessa grandezza, vedrà l’emisfero della pietra rischiarato e tutto lo specchio oscuro, all’infuori di quella minima particella in cui le si offrirà alla vista un certo piccol sole. Che se tanto l’allontanerà da essere insensibile l’angolo, cioè quel piccol sole, appena Ella vedrà lo specchio; il sole poi apparirà splendentissimo. L’acqua e la terra sono sferiche, e la luna ha una parte lucida ed una macchiata: applichi ad esse questi riflessi, e toccherà con mano la cosa.

Vengo a trattare di un altro suo dubbio. Non so se il matematico siasi chiaramente spiegato; ma dirò del fatto com’è. Niente affermo di queste macchie che si veggono nella luna. Tanto appariscono col mezzo del canocchiale, come se si vedessero ad occhio nudo; ma dico che nella parte lucida della luna trovansi cavità ed eminenze. Se V.S. dirà: — Sono le parti più rare che sembrano a me cavità, e le più dense che prendo per eminenze, — vengo a provarle il contrario. La solidità di una cosa, com’Ella ha appreso dagli ottici, non si vede che per la luce e l’ombra: però la pittura imita la solidità co’ lumi e coll’ombre, ed io posso mostrare ogni oggetto solido come se fosse pieno, per lumi ed ombre variate di colore. Asserisco ora che il lume e l’ombra di quelle parti manifestano chiaramente la esistenza di quelle cavità ed eminenze. Se Ella adatterà in modo uno specchio concavo, che il suo asse voltisi al punto del sole a mezzogiorno, e lo riguarderà quando nasce il sole, allora la parte [p. 64 modifica]orientale sarà ombrosa e illuminata l’occidentale. Allorchè il sole sarà giunto a mezzogiorno, tutta la cavità illuminerassi; e quando a tramonto, sarà per contro ombrosa l’occidentale, e la orientale lucida. E se tanto vedrà, perchè non conchiudere:— se mi verrà sugli occhi cosa a cui più da vicino non potrei accostarmi, senza bisogno del tatto, la dirò cava? — Vedonsi pure nella parte illuminata della luna certe rotondità, che se la luna è dalla parte d’occidente, appaiono in quella direzione più oscure e più chiare dalla parte d’oriente; e, per converso, decrescendo la luna dalla parte orientale, veggonsi le stesse rotondità in numero e grandezza: ma i lati orientali allora sono più oscuri e più luminosi gli occidentali, di guisa che sempre l’oscurezza volge al lato del sole. Nel plenilunio poi non si vedono, come quelle che sono in pari modo illustrate dovunque dal sole. Se ciò non denota quelle essere cavità, non ci resta più modo a conoscere per via della vista le cavità. Parlo ora del tatto. A rincontro parimente, se quello che dalla parte del sole nascente apparisce lucido e dall’opposta tenebroso, al tramonto del sole cangia tanto che il punto lucido si tramuti in oscuro, e viceversa, le sarà forza di riconoscere l’eminenza. Certe altre cose trovansi nella luna, ma in minor numero, che al crescere e decrescere suo appaiono identiche di postura, quantità e grandezza, cangiando di luce, e sempre più risplendendo la parte che avvicinasi al sole. Nel plenilunio poi non si vedono, essendo egualmente illuminate; perocchè il sole stando perpendicolare ad un monte, lo rischiara tutto egualmente da ogni banda. L’amico del quale V.S. dice aver fabbricato un [p. 65 modifica]istrumento ad iscorgere più stelle fisse e scoprire altre macchie della luna, ha fatto gli stessi sforzi dei nostri; i quali vanno qui molto innanzi, e nella costruzione e nell’uso dell’istrumento.4 Ho per fermo che tutta la celeste filosofia ne avrà incrementi notevolissimi.

Io la trattenni a lungo su queste ciance; ma corse a mio malgrado la penna quando presi a scrivere di questa materia. Se noiosa riescirà la lettura, mel perdonerà; e se non chiara abbastanza, sappia scusare la pochezza dell’ingegno. Io non so divertir la mente dagli argomenti beneficiari.5 Nessuna maraviglia che di ciò spesso le scriva, perchè qui volgesi il cardine della nostra libertà. Di qui ci vengono tutti i mali; i quali se medicar sapremo, torneremo a piena salute. M’abbia fede; i nostri dissentimenti hanno origine solo da ciò: sul resto siamo d’accordo anche troppo. Veda se metta conto il ripetere spesso cotesto ragionamento. Non altro aggiungo. Prego Dio che la conservi sana, e mi dia il potere di palesarmele non disutile servitore. Le bacio le mani, pregandola d’infiniti saluti al signor Aleaume.

Venezia, 27 aprile 1610.




Note

  1. Edita in latino, tra le Opere ec., pag. 77.
  2. Giovanni Wames, e latinamente Wamesius o Vamessius, di Liegi, autore di un libro intit. Responsorum, sive Consiliorum Juris, Centuriæ sex; e d’altri. Godè l’amicizia di Giusto Lipsio, che ne pianse la morte nel 1590.
  3. Se qui voglia parlarsi del Galileo, rimane incerto, non essendo a noi pervenute le lettere scambiate circa quel tempo tra i due grandi uomini. Si aggiunge che una Lettera dello stesso Galileo al Sarpi, dei 12 febbraio 1611, comincia cosi: “È tempo ch’io rompa un assai lungo silenzio.„ Op. di G. Galilei, ediz. diretta da E. Albèri, tom. VI, pag. 41.
  4. Non crediamo che potrebbe ciò intendersi d’altri che del Galilei e del suo celebre teloscopio; siccome ancora che la espressione nostri, debba a lui principalmente riferirsi. È bensì vero che anche il Sarpi fabbricava o faceva fabbricare istrumenti fisici, astronomici o geometrici. Sul quale proposito delle scoperte e invenzioni da lui fatte o promosse, invitiamo di nuovo gli ammiratori del grande Italiano a rileggere le Memorie aneddote del Griselini, da pag. 106 a 112.
  5. Fa onore al Sarpi una tale protesta; perchè gli studi che drittamente mirano al bene della civil convivenza, sono sempre da preferirsi alle scientifiche, per quanto gloriose, speculazioni.