Lettere (Sarpi)/Vol. I/70

LXX. — A Giacomo Leschassier

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LXX. — A Giacomo Leschassier
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LXX. — A Giacomo Leschassier.1


Recommi il corriere due lettere di V.S. alle quali partitamente risponderò. La S.V. eccellentissima ha ben notato le ragioni che trassero la Germania e l’Inghilterra a mutare le osservanze di religione; ma su noi non potranno nè quelle nè altre più valide.2 Meglio è patire certe leggi e [p. 238 modifica]costumanze non commendevolissime, che fatto il gusto ai mutamenti, cedere alla tentazione di tutto rimescolare. Si sa che fra le sacre ordinanze tengono esse il primo posto. Quali leggi risparmierannosi, se avremo a schifo le più eccellenti? Anzi, per ciò stesso contendiamo noi co’ pontefici; volendo essi rimutare ogni giorno riti e regole di disciplina, e noi mantenerle, al fine che non abbia scosse la cosa pubblica. Citerò alla S.V. un solo esempio, affinchè faccia ragione del resto. Da Leone IV fino a noi leggevasi nella chiesa l’orazione: Deus, qui Beato Petro Apostolo tuo animas ligandi atque solvendi pontificium tradidisti; or bene, a cura del Baronio si emendarono tutti i libri sacri in questa parte, e scappò fuora la lezione così concepita: Deus, qui Beato Petro Apostolo tuo ligandi atque solvendi pontificium tradidisti. Dove la voce animas è sparita; ed essi medesimi vi dicono che l’han fatto a disegno, per insinuare che è un’eresia restringere la pontificia autorità alla cerchia spirituale, e alla facoltà del ritenere e rimettere i peccati. A dar retta loro, il papa può condonare tutti i delitti spirituali e temporali. Ma a voler rivangare tutte queste storielle, non si finirebbe più. Battagliamo noi perchè gli antichi riti e dettati non cadano; essi perchè cancellinsi. I nostri predicatori vanno, per loro commissione, predicando novità sul pieno arbitrio papale, la obbedienza cieca e i vantaggi dell’ignoranza. Seguì un gran battibecco perchè Fulgenzio mio parlò coram populo su i meriti di Cristo, la [p. 239 modifica]fede in Dio, la speranza, i doveri di ciascheduno e la lettura delle scritture. A Roma cantan sul serio, che appoggiarsi alla Bibbia è lo stesso che distruggere il cattolicismo. Per avere lo stesso Fulgenzio affermato che il potere si fonda sulle divine sanzioni, e che quegli il quale lo tiene con fedeltà è ben accetto al Signore e degno di riconoscenza; dove che il principe o il giudice, disertando il posto per attendere a pellegrinaggi o preci di chiesa, incontra il celeste disfavore; ha mosso un vespaio da non si dire. Su di che ho intrattenuto un po’ à lungo la S.V. per deporre in seno di un amico le nostre amarezze.

Vere le novelle sui lacci tésimi; e pur la S.V. non fu ragguagliata di tutto. Ogni giorno si scopre qualcosa di nuovo. Io son fermo a non curare tutte queste miserie. Niuno sa ben vivere, il quale pensa troppo a vivere. Si dee morir finalmente una volta; cercar del giorno, luogo o modo, poco importa. Tutto è bene che piace a Dio.

Sui casi esposti alla S.V. dell’ucciso Tribuno, occorse esagerazione. Ecco come andò la cosa. Fulvio facchino, di Rieti, ammazzò un suo concittadino che odiava. I figli del morto ottennero un breve da Clemente VIII, nel quale il papa dichiara che a loro e qualsivoglia altro è permesso in buona coscienza, dovunque e per ogni guisa anche estragiudiziale, causargli rovina e morte. Questo breve si divulgò, con iscandalo di moltissimi; e, come incontra, ci fecero la frangia, che s’impartisse indulgenza plenaria agli uccisori: lo che in esso non è specificato, asserendosi solamente che quell’azione poteva compiersi in buona coscienza e fuor d’ogni [p. 240 modifica]timore d’irregolarità. Mi sarà agevole procacciarmi un esemplare di esso breve apostolico. È di autenticità pubblica; ma dappoichè non suona come corse voce costà, senza un cenno ulteriore non lo spedisco. Io non approvo e non posso sostenere che tanto eccessivo sia lo strapotere d’un papa, da autorizzare nel territorio di un principe, senza bisogno di giudici, la uccisione d’un uomo: allora, infatti, si negherebbe al principe ogni potestà punitiva. E ciò, parmi, tornerebbe lo stesso che dare al papa il dominio universale; al che mira, come potè accorgersi la S.V. la curia romana.

Il nostro Principe non ha preso per ora parte nella lite del monaco di Camaldoli coi romaneschi. A Roma assai fanno e disfanno. A che riuscirassi, non so: ma bisognerà bene che, fra un mese, o tutto s’acconci, o a tali termini si riduca, che facciano impossibile un componimento. I romaneschi invitarono a generali radunate tutti gli abati camaldolensi; i quali faranno di certo cessione dei dritti, se lor verrà chiesta: ma non capisco qual profitto possa tornarne ai primi. Se pretenderanno che il Capitolo deliberi contro il religioso ch’è in possesso, l’avranno alle lor voglie; ma poi? In tal bisogna non hanno mai mosso piede i romaneschi, senza trovarsi più avviluppati.

Grazie per le notizie portemi sui decreti d’Orléans. Mi sarà in gran piacere se mi accennerà il nome della città nel Delfinato dove fu eletto il vescovo a forma di quei decreti; come pure quello dell’eletto; e ancora, se la cosa alligni senza bisogno di sanatoria papale. Prego eziandio la S.V. a ragguagliarmi, se in cotesto regno ci abbiano ordini monastici con famiglie e convento di regio patronato, [p. 241 modifica]o di nobil signore e laico; e se i patroni usino del dritto di presentazione, ovvero osservisi il capitolo Nobis de jure patronatus; e se vi si trovino famiglie o conventi di Certosini o Mendicanti, dove i laici per dritto di patronato abbiano facoltà a presentare il superiore. Mi garberebbe conoscere da ultimo tutte le consuetudini di cotesti luoghi intorno al giuspatronato sugl’impieghi dei regolari.

Il legato del nostro Principe scrisse avermi inviato i libri e le collezioni di Gillot e Boccello. Con vivissima ansietà le attendo, e godo che i Gesuiti non riuscissero a distruggere tutto il libro.

Espone la S.V. in altre lettere, che costà trovasi un libretto, nel quale l’abate di Camaldoli chiarisce i suoi dritti. Gira attorno anche qui manoscritto e si crede farina sua; ma non ha argomenti abbastanza sodi. Se procederà la faccenda a contrasti pubblici, la S.V. vedrà di meglio: ma se sapesse con quali risposte diano la baia i romaneschi a’ decreti del Concilio e a privilegi dei religiosi, affé che darebbe in risa. Celebrato il Sinodo di Trento, Pio IV proibì a chicchessia di farne per iscrittura glosse, e certa congregazione di Cardinali istituì, che n’esplicassero i punti oscuri ed ambigui. Essa congregazione dura ancora, e scioglie i dubbi agl’interroganti; ma il più delle volte la dichiarazione fa a cozzi col testo, e a Roma tanto importa dichiarare, quanto pensare il contrario. Il decreto del restituirsi i monasteri l’applicano soltanto ai non dati in commenda. Una volta sostenevano la superiorità del papa al Concilio, ed oggi (a qual pro l’affannarsi tanto?) quella di quattro cardinali, sotto scuse dichiarative. Falso è quel che hanno scritto costà circa l’immessione al [p. 242 modifica]possesso dell’abate per decreto della Repubblica. Soltanto non gli si dà noia pel possesso che prese di suo moto; ed eccone il perchè. Niuno, anche nominato a qualsivoglia benefizio dalla curia romana o dall’ordinaria, può entrarne al possesso senza l’intervento del giudice laico, autorizzatovi da lettere del Principe. Da questa legge vanno eccettuati i soli abati, che si creano temporariamente dalle proprie congregazioni. A questi per l’accoglimento suffragano le sole lettere dei respettivi superiori, perchè la congregazione è già in possesso; e così segue in tutti i monasteri Benedettini. Questo nostro abate, che sta in carica un triennio ed è nominato dalla sua congregazione, sostiene che non ha bisogno delle lettere del Principe e dell’officio del giudice, ma gli bastano all’uopo le sole lettere del superiore. Nessuno gli dà sulla voce; e dura per questo modo al possesso. Conosce il Principe l’accaduto, e nol mena buono nè il disapprova, pronto a far ragione a chi dirà contro: il che per anco non s’è verificato. E i romaneschi si guardano dal farne lagnanze dinanzi al Principe, per non sembrare approvatori del civil fôro. Nessuno frastorna in via di fatto il possesso dell’abate, perchè il popolo è tutto per lui. E come opporglisi legalmente, non sanno: intanto egli sfrutta l’impiego. Se arriva alla raccolta del grano (che varrà 12,000 ducati d’oro) e del superfluo al vitto dei monaci regalerà i poveri, degli sforzi de’ romaneschi a cacciarlo via sarà un bel nulla.

Del codice di Magonza che V.S. promette inviarmi a stampa, le sarò tenuto oltremodo; e l’attendo con ardentissimo desiderio. Io scrivo alla S.V. dimesticamente e senza eleganza di sorta: non [p. 243 modifica]s’abbia a male della rozzezza. Sento che il signor Casaubono ha racquistato la sanità; ventura, per cui debbo voti a Dio ottimo massimo. Mille saluti a lui e al signor Hotmanno Villerio.

Venezia, 12 maggio 1609.




Note

  1. È a stampa in latino, tra le Opere di Fra Paolo, ediz. cit., pag. 50.
  2. Pesino bene queste parole i cortesi, che definiscono il Sarpi un protestante incappucciato. Il dotto Servita dee giudicarsi agli scritti e alle opere, non ai gratuiti schiamazzi de’ gesuiti e gesuitanti.