Lettere (Sarpi)/Vol. I/71

LXXI. — Al medesimo

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LXXI. — A Giacomo Leschassier.1


Tanta è di continuo la negligenza dei corrieri, da forzarmi a scrivere alla S.V. eccellentissima sempre in fretta. Ebbi le sue lettere dei 25 febbraio, e ne imparai il perchè a Roma non le si faccia buon viso; cioè per aver Ella insegnato che i preti sono soggetti a’ magistrati, secondo il comandamento degli Apostoli Pietro e Paolo. Venir fuora con le scritture, qui sa d’eresia (gridano i nostri): tal fatta negozi non si sbriga colle scritture, ma con le decretali e le autorità dei giureconsulti. Parlo sul serio e non per ironia: me chiamano di gran gusto eretico, per l’affermar che fo, i cherici essere stati liberati dalla giudicatura dei magistrati per grazia e privilegio degl’imperanti; ma rispetto alle delinquenze che Giustiniano appella civili, non francarli il giure divino dai tribunali comuni, e perciò potersi da ogni principe assoggettare al fôro secolaresco, quante volte sia espediente alla difesa della pubblica tranquillità. Trasecolereste a sentire il Bellarmino spacciare che Paolo apostolo, molestato in giudizio da Festo, doveva appellare a Pietro, ma se ne rimase [p. 244 modifica]per non far ridere. O andate ora e non ridete, se è possibile; stantechè torni inutile riferire con quali commenti alle parole di Paolo facciansi giuoco di noi. Basti dire che cavan di lì la supremazia del papa su tutti i re e principi. Ma di questo non più.

Della lega fatta dal duca di Borgogna, dai conti e dalla nobiltà gallica contro il clero, cui si provò a rompere Innocenzo IV con donativi ad essi e benefizi a’ loro affini, dice copiosamente Matteo Paris nell’Istoria d’Inghilterra, all’anno 1247; e, per quanto l’ho a mente, enumera gli articoli dell’alleanza. E da ultimo ricorda, come Lodovico la sanzionasse, e il re inglese lo stesso temperamento adottasse ne’ suoi Stati: sol parmi che l’approvazione del re non venisse subito dietro a quel contratto, ma alcuni mesi dopo; come si conta, in seguito a molte intramesse, ancora da Matteo.

Io ho spesse volte in animo di scriverle cose che poi, per sùbiti accidenti, mi fuggono di mente. Ora son tutto nelle materie beneficiarie, atteso l’affare del monastero di Vangadizza; ma il Senato non ha preso ancora nella causa risoluzione di sorta. L’abbate, avuta la instituzione dai religiosi, è in possesso; il Borghesi si struggerebbe a cacciarlo: ma sul fatto del possedere, guardasi dal muover lite dinanzi al magistrato secolare; sì bene intende a contrastarne il titolo legittimo, e non per via di citazione dell’abbate, ma del procuratore dell’Ordine, che dimora in Roma, e col quale (ne ho buon prognostico) saprà giuocare di finta schermaglia agli altrui danni. È tal negozio questo, che o verrà di tutta agevolezza a un aggiustamento, o fors’anco a lotte ardentissime. L’inghiotte male il pontefice, che vuole empir l’epa al [p. 245 modifica]nipote; e la curia romana vede di buon occhio che a tanta felicità si mescoli alcun intoppo: così l’invidia anche i santi martella. Dio ci guardi per sua bontà.

Ma voi, quando penserete a diradicare la zizzania e l’erbacce che i Gesuiti piantano alla Flêche, ove mi affermano che si trovino per educarsi presso a cinquecento figli di nobili? Questo, a’ miei occhi, è il vero morbo gallico; e tale riusciravvi, se dalla fortuna non avrete lo stesso buon servigio che noi. Perocchè, se da quei collegi uscirono alquanti che portavano a cielo i loro istitutori, i più ne furono implacabili nemici.

Io, chiarissimo signore, ho alcuni statuti del 1560, fatti da Carlo IX in Orleans, e altri in Blois, da Enrico III, del 1579. Desidero sapere se ad essi fu derogato da altre leggi, o dalla pratica. In quelli, e segnatamente Orleanesi, veggo alcuni punti fermarsi sulle annate e altre romane esazioni, che costà sento non osservarsi per nulla. Vi prego a contentare la mia curiosità.

Aspetto avidamente la collezione del Boccello;2 e spero di trovarci assai cose buone al bisogno mio. Alle novelle che giunsermi, vollero dapprima tener nascosto e poi castrare quel libro; e io presagisco che a Roma lo condanneranno. Sorte che incontra a molte buone opere.

Verissimo che di Spagna si porti a Roma danaro [p. 246 modifica]in gran copia, come afferma la S.V. eccellentissima. Ma nè la rimanente Italia è priva dei regali di Spagna: presso che tutte le città hanno i pensionari di quella corona. Per Venezia è un affare momentoso, e ne seguono litigi accanitissimi. Faccia il Cielo che venga sterpata in perpetuo quella peste; perchè, sebbene, a dir vero, tutti gli anni coli in Ispagna l’oro indiano, cotali regni giacciono oppressi da povertà estrema. Se avvenga ristagno dell’oro indiano, sono perduti.3 Ciò dà presagio di futuri mutamenti e d’importanza; dacchè il re all’amministrazione non dà mano; omissione che non conferisce agli Stati lunga prosperità. Quando sentirò che i Batavi s’apprestino alla navigazione per l’India occidentale, allora dirò subito che Europa non patirà molestie spagnole.

Io debbo di dì in dì tanto alla S.V. eccellentissima per offici di cortesia, che sempre più scarse sento le posse a discaricarmene. L’animo, per necessità, terrà vece delle opere. I miei ossequi al signor Casaubono; del quale ebbi le lettere, e differiva la risposta a trattative compiute col Molino sul trasporto dei libri. Ad ambe le SS.VV. salute.

Venezia, 17 maggio 1609.




Note

  1. Pubblicata tra le Opere di Fra Paolo, ediz. e tom. cit., pag. 53.
  2. Questo giureconsulto francese, molte volte nominato nelle Lettere sarpiane, fu avvocato del parlamento di Parigi, e autore delle seguenti opere: Decreti della Chiesa gallicana; — Biblioteca del Gius francese; — Manuale del giureconsulto cristiano. Morì nel 1629.
  3. Altra arguta previsione, o piuttosto profezia, di Fra Paolo.