Lettere (Andreini)/Lettera C

C. Del Simile.

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Del Simile.


H
O ricevuta (gratiosissima Signora mia) la vostra lettera, non men affettuosa, che compassionevole, laquale m’hà apportato in uno contento, e dolore. Hò sentito dolore intendendo con quanto dispiacer vivete, per la mia lontananza, & hò havuto contento, comprendendo da’ vostri tormenti l’amore, che (bontà vostra) mi portate. Nel fine d’essa mi dite, che siete morta insegnandovi così ’l dubbio, bench’altro dimostri l’effetto. Ohime, ch’io sò certo di morire prima di voi, quando pure per soverchio dolore siate astretta à tal estremo. Morte non è altro, che un divider l’anima dal corpo; vivendo voi dunque non con la bell’anima vostra; ma con la mia, converrà ch’io sventurato muoia, e non voi. Dunque non sapete, che dell’anima mia vi feci dono allhora, che mi fù dato in sorte di conoscervi? e voi per non lasciarmi viver senz’anima mi donaste la vostra. Hor, se voi spirerete l’anima mia, la vostra per soccorrervi mi

[p. 93v modifica]lascierà, e verrà à ritrovarvi, amando finalmente più il suo proprio seno, che ’l mio, & io privo della vostra, e dell’anima mia morrò. Ecco, che mentre io vivo son certo della vita vostra, ilche m’è di tanto contento, quanto m’è di dolore il vedermi da voi lontano. Oh quanto m’affligge tal lontananza, oh quanto mi duole il non veder quella mano, che sì dolcemente mi strinse il cuore. Fù così caro il laccio, ch’egli più non seppe, e più non volle, desiar libertate. Ohime quanto mi spiace il non veder que’ capegli, che con tanto mio diletto mi legarono. Oh quanto invidio quell’aura, che soave gli increspa, allhora che voi secondo l’uso della vostra Patria, per voi fortunatissima, state quasi Sole esposta al Sole. Quanto invidio quelle cose, che son illustrate dal celeste lume di quelle stelle, che m’infiammarono. Quanto invidio quel Cielo, che dal bel vostro volto è fatto sereno, e chiaro. Deh perche non m’è conceduto, sicome io sento à tutt’hore impiagarmi, di veder colei, che dolcemente m’impiaga? Hora conosco quante volte fuor del giusto mi dolsi d’Amore, delle stelle, e di voi mio bene. Quallhora ingiurioso guanto mi nascondeva lo schietto avorio della vostra mano, o fortunato velo cuopriva l’animata neve del vostro seno, tutto sdegnato i’ malediceva la sorte, che molto più favoriva il guanto, e’ ’l velo, che me vostro fedelissimo amante, e quand’io mi vedeva contra turbato il sereno del vostro viso, ancorch’ei non durasse più di quello, che sogliono durar le imagini, che forman le nubi nell’aria, nondimeno per così [p. 94r modifica]lieve offesa sospirai, e piansi amaramente. Hora conosco esser felici quelli amanti, che per tali accidenti sospirano, e piangono. Felice anch’io fui, benche allhora non conoscessi tanta felicità, e non m’avvedessi, che i lievi sdegni, le brevi ire, & altri simili avvenimenti sono stati trovati dal nostro gran Signor Amore, per condir le nostre gioie, e renderle più care, e più soavi: Ma ben si vendica egli al presente, che, se già piansi senza cagione, hora colpa di necessitata lontananza, l’hò così giusta di piangere, che, s’io distillassi per gli occhi il cuore, non piangerei à bastanza la mia doglia, e quando tutto in lagrime mi corvertissi, non potrei dir d’haver pianto tanto, quanto conviensi al mio fiero tormento. Potrò io sostenere di viver più lungamente lontano da voi? potrò io vivere senza udir il suono della vostra angelica voce? potrò io non morire lungi da que’ rubini, e da quelle perle, ond’esce l’aura della mia vita? e potrò io finalmente non ritornar al mio bene, al mio cuore, alla mia vita, & alla mia anima? ohime che non è possibile essendom’io una volta alimentato di così degno cibo lo star più lungamente digiuno. Molte volte per alleggierir il mio male cerco d’ingannar me stesso, e con la memoria delle dolcezze passate mitigar la noia delle cure presenti: ma non si può, anzi che, quanto più cerco di scemar il mio dolore col ricordarmi i passati contenti, tanto più m’affliggo. Tutte le passate gioie mi vengono in mente, e mi struggo di doglia non potendole godere. Non sia vero, che più mi strugga. Alla più lunga frà quattro, o [p. 94v modifica]cinque giorni (se fiero accidente non s’interpone) voi mi vedrete. Niuna cosa havrà più forza di ritenermi, sia pur importante quant’esser si voglia. Intanto amatemi, e conservate quegli occhi, che in questa lontananza han cagionato, che i miei nè di giorno, nè di notte habbian saputo che cosa è sonno. Il Cielo vi faccia ogni dì più contenta, e me vostro fedelissimo servo mantenga nella vostra gratia.