Lettera a Carlo Dati
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LETTERA DEL MEDESIMO
A L S I G N O R
C A R L O D A T I
Sopra l’iscrizione di un Mattone cavato
dalle ruine d’un muro antico
gittato a terra
In occasione di ristaurare il Portico
della Rotonda l'anno 1662.
Niuna cosa può farsi, per mio avviso, (Dottissimo Signor Carlo) da chiunque desidera di giovare agl’Investigatori del vero, o sia nella cognizione delle Scienze, e delle Arti, o negli studj delle belle Lettere, la quale al fine proposto più conferisca, dell’osservazione di quello cose, che apparendo di minor pregio, sono dal maggior numero di coloro, che vi applican l’animo, o non avvertite come minime, o come inutili trascurate, e lasciate da parte. Imperciocchè non consistendo per lo più la perfezione delle scienze, e dell’arti nelle notizie comuni, ma nelle più riposte, e lontane, egli avviene bene spesso, che dall’investigazione delle cose meno osservate, per essere elleno di poca stima più felicemente, che da quella delle più riguardevoli, ed esposte alla considerazione di ognuno, al conseguimento di essa si perviene. Laonde chiunque desidera di condurre felicemente a fine ciò, ch’egli intraprende; ninna cosa dee disprezzare per bassa, e vile, di’ ella sia, purché abbia qualche sorte di corrispondenza, o voglia m dir proporzione con quella, ch’egli intende di voler fare, essendo altrettanto vero, quanto bello quel detto Sofocle nell’Edipo Tiranno.
. . . . Τὸ δὲ ζητούμενον
ἁλωτόν, ἐκφεύγειν δὲ τἀμελούμενον.
Cioè a dire, che quel, che si cerca, si ottiene, ma
quel che si trascura, fugge tra mano. Né vi è alcuno si poco versato nelle cose de’ Secoli trapassati, il quale non sappia, quanto abbia giovato talora allo scoprimento de’ più occulti, e maravigliosi segreti della Natura l’osservazione di cose per altro leggiere, e di niun momento.
- Ch’esser suol Fonte a’ rivi di nostr’arti.
All’imitazione de’ nidi delle Rondini fatta da quei primi uomini, i quali fabbricando i lor tugurj di loto, e di frasche, cominciarono a schermirsi dall’ingiurie delle stagioni, attribuisce Polidoro Virgilio l’origine dell’Architettura; e voi stesso sapete, che il Galileo, chiarissimo lume della nostra Patria, dall’osservazione del moto di una lampana pendente nel Duomo di Pisa, ch’egli dopo molta avvertenza comprese terminare in eguale spazio di tempo i grandissimi, e poscia i piccolissimi archi, che col muoversi in qua, e in là descriveva, cavò tante belle speculazioni circa il moto de’ penduli. e sue proprietà; onde agli artifizj meccanici nuova luce accrebbe, ed il tempo, che prima baldanzoso ne andava di potere, siccome colà nella spelonca di Omero sottrarsi da quei legami, i quali l’ingegno umano andava di mano in mano ritrovando per imprigionarlo, in più saldi ceppi strinse di quelli, co’ quali appresso Luciano rimproverava a Giove quel Cinico essere stato legato nel più profondo del Tartaro il di lui genitore, in cui il tempo si figura. Avendo io dunque meco stesso spesse volte fermata per vera questa opinione, quindi è, ch’essendosi scoperto, nel gittare a terra quelle case, che nascondevano il destro lato del famoso Portico del Panteon, un gran pezzo di muraglia antica di mattoni larga nove palmi in circa, la quale lungo il sopradetto lato del Portico si distendeva, vennemi tosto il pensiero di rintracciar per quanto mi fusse stato possibile, di qual edifizio potesse essere avanzo quel muro posto in un sito si riguardevole, e si vicino ad una delle maraviglie di Roma; onde mi posi diligentenente a considerare la Fabbrica di Architettura, e la qualità di esso, per ritrarne almeno qualche barlume circa all’uso, al quale avesse potuto servire. Ma vana "sarebbe stata ogni mia diligenza, se da cosa piccolissima, e che poteva agevolmente trascurarsi, non mi fosse stata aperta la strada a più curiose speculazioni: imperoche comunque vi si scorgessero le vestigia di un arco, e di uno de’ pilastri, su quali egli era impostato; niente di meno poco, o nulla avrei potuto raccoglier da ciò senza la luce che mi hanno data alcuni gran mattoni, o vogliam dire tegole di terra cotta, i quali dalle ruine di esso muro si cavano a mano a mano, ed osservati da me nella Piazza, dove stavano in quantità ammontati, per la loro straordinaria grandezza, eccitarono la mia curiosità. Questi mattoni, siccome io argomento da uno di essi, che ne ho appresso di me intero, non erano d’alcuna delle tre grandezze, delle quali, per quello, che ne scrive Vitruvio erano soliti di servirsi i Greci nelle loro fabbriche, ma sibbene della misura di un’altro veduto ne’ suoi tempi dal Filandro della Vigna di Giovanni Mileti fuori della Porta Latina, il quale era largo per ogni verso due piedi, e un sesto, e grosso due e un terzo, con questa Iscrizione :
TEG C COSCONI
FIC. ASINI POLL.
Dond’egli raccoglie con ragione che gli Antichi Romani non si contentassero delle tre sorte di mattoni usale da’ Greci nelle loro fabriche; ma secondo che richiedeva la comodità, la leggiadria, e la proporzione degli Edifizj molte, e molte ne usassero. Nel mio intero altresì, e nei pezzi degli altri, che sono appresso di me, si veggono in lettere, che si chiamano volgarmente majuscole, impressi i nomi degli Artefici, e queste sono scompartite nella circonferenza di un sigillo tondo, che le contiene, in quella guisa appunto, che si veggono nella figura, Che se io mi fussi fermato nella semplice notizia de’ nomi de’ Fornaciai impressi ne’ mattoni sopradetti, cosa di già osservata dal Filandro nel suo, e da altri in diversi lavori di terra cotta io nulla ne avrei ritratto a prò di chi si diletta degli studj dell’Antichità. Ma io non contento di ciò, ed invogliato di cavarne, se mi era possibile, qualche cosa di più singolare: fattimene recare a casa cinque, o sei fra rotti, ed interi, dov’erano improntate le iscrizioni, e quelle non senza fatica lette, ebbi fortuna d’incontrarmi in una, dalle quali parmi di poter conghietturare esser quel muro parte dell’Acquedotto particolare, con cui l’Acqua Vergine dall’Acquedotto maggiore nelle Terme d’Agrippa si conduceva, fabbricato prima dal medesimo Agrippa, e poscia ristaurato, o rifatto di nuovo dall’Imperatore Adriano, siccome nel proseguimento del presente Discorso procurerò di mostrare; il quale ho voluto indirizzarvi in segno dell’amicizia stabilita fra di noi dalla somiglianza degli studj, ed anche sperando di dovervi far cosa grata, dandovi qualsisia notizia delle cose appartenenti all’Antichità, delle quali voi tanto vi dilettate.
Io fondo adunque principalmente il mio discorso su l’Iscrizione di uno di essi mattoni espressa nella figura. Vedesi nel cerchio minore di esse:
TIT. ET GALL. COSS.
Cioè Titiano et Gallicano Consulihus. Cadde il Consolato di Tiziano, e di Gallicano nel 10. anno dell’Imper. d’Adriano, e nell’DCCCLXXX. dalla Fondazione di Roma secondo il Panvinio. Nel Consolato di essi pone Cassiodoro, che Juxta Eleusinam Civitatem in Cephiso fluvio Hadrianus Pontem construit. Egli però gli registra con diverso ordine nominando Gallicano avanti a Tiziano, come ancora si legge nella Cronica di Prospero Aquilano ristampata dal Padre Labbè. Nei Fasti d’Idazio pubblicati pur di nuovo dal medesimo si osserva lo stesso ordine, che nell’iscrizione, e questo fu seguitato dal Panvinio nella prima edizione de’ fasti, dove si legge.. Cornelius Titianus. : . Gallicanus. Ma nella seconda non so per qual ragione mutatosi d’opinione pose: Gallicanus, Coelius Titianus, e fu seguito dal Golzio, il quale ne’ suoi Fasti aggiunge di più a Tiziano il prenome... Gallicanus D. Coelius Titianus. Nella qual cosa se si debba prestar più fede all’autorità di Cassiodoro, e del Panvinio, che alle Iscrizioni di quei tempi, o s’egli sia più verisimile, che abbiano errato quei Fornaciaj uomini idioti, o gli Scrittori, da’ quali sono stati trasmessi ai nostri tempi i testi a penna di Cassiodoro, e degli altri Autori allegati dal Panvino nei suoi Fasti, non è mio intento1 il cercarne. Fra le iscrizioni del Grutero ve n’è una, in cui si fa menzione di un Gallicano Console ordinario, che così chiamavano quelli, che entravano Consoli il primo di Gennajo a distinzione degli altri che nel rimanente dell’anno succedevano loro in quella dignità, dei quali nel Principato di Commodo sino a venticinque in un solo anno se ne contarono. L’iscrizione è questa.
BRVTIA. AVRELIANAE. CN.
Così sta nel Grut. FILIAE. MVSOLAMIAE. VIRON. ET. L.TERIAE
C. F. NEPTI MARCEL UNO. ET.
MARINAE. HER. GALLICANI. CONSS.
ORDINARI. QVAE. VIVIT. ANN. XXXVII.
MENS. X. DIES. XVIIII. OB. MERITA
HONESTATIS, ET. CONCORDIAE.
CONIVGALIS. L. VITALIS. V. C. PROTEC.
ET. NOTARIVS. VXORI. AMANTISSIMAE.
ET. SIBI
Quel Celio Tiziano, dì cui si parla, è a giudizio del Panvinio, lo stesso che fu prima Tutore di Adriano, e poi Prefetto del Pretorio. Ma questa sua opinione è confutata a lungo dal Salmasio nei Commentarj sopra gli Scrittori della Storia Augusta, dove egli con diversi argomenti intende di provare, che quel Tiziano, di cui parla Sparziano nella Vita di Adriano (il quale egli, secondo che ei dice leggersi in un ottimo testo a penna, ed anche appresso Xifilino, vuole che debba chiamarsi Azziano) sia diverso da questo Tiziano, di cui Sparziano nella stessa Vita fa menzione altrove in quelle parole: Titianum ut conscium Tyrannidis, et argui passus est, et proscribi, e questo fu secondo lui il Collega di Gallicano sul Consolato. Le ragioni, ch’egli allega a suo favore in questo proposito, son per certo assai probabili, ma io nulladimeno conformandomi all’opinione del Casaubono lascierò all’altrui parere il dar giudizio di tal questione. Non è dunque da dubitare, per le cose già dette, che i sopradetti mattoni non sieno stati fabbricati nei tempi di Adriano; è probabile anche l’edifizio, per cui servirono, il quale essere stato un’Acquedotto, stimo, che si possa agevolmente ritrarre dagli argomenti, e dalle conghietture, che io verrò adducendo di mano ia mano, e primieramente dall’autore di Sparziano, il quale nella vita di quell’Imperatore, raccontando gli edisizj ristaurati da lui in Roma, così ne scrive: Romæ instauravit Pantheon, Septa, Basilicam Neptuni, sacras Ædes plurimas, Forum Augusti; Lavacrum Agrippæ; eaque omnia veteribus, et propriis nominibas consecravit. La quale usanza di Adriano di consagrare co’ lor nomi antichi le fabbriche, ch’egli ristaurava, non avvertita, o non bene intesa da Giorgio Fabrizio, fu forse cagione, ch’egli si inducesse a porre nella sua Roma le Terme
particolari di Adriano fra le Chiese di S. Maria sopra Minerva, e della Rotonda, non essendovi per altro riscontro alcuno, ch’egli fabricasse Terme particolari, o dalle storie, o dalle medeglie, ed Iscrizioni. E benché dal Donati, e da altri Antiquarj si faccia menzione delle Terme di Adriano, dall’incertezza nondimeno, con la quale essi ne ragionano, e dalla scarsezza delle conghietture, che ne portano, si scorge chiaramente, ch’eglino non hanno avuto altro fondamento di crederle Terme particolari, che l’autorità di Rufo, e di Vittore, i quali soli fra tutti gli Scrittori antichi ne parlano, registrandole nella Regione IX. immediatamente dopo l’Alessandrine, delle quali si veggono ancora gli avanzi nel Palazzo de’ Granduchi di Toscana; e quindi aveva forse origine la fama, la quale correva al temp0 del Fauno, ch’elle fussero dove è la Chiesa di S. Luigi de’ Francesi. Ma quanto sia pericolosa cosa il fondarsi sopra i soli testi di Vittore, e di Rufo alterati, ed accresciuti ad arbitrio di chi gli ha scritti, viene con molti esempj manifestamente dimostrato dal Nardino nella sua Roma Antica. E che ciò sia avvenuto particolarmente in questo caso, ne fa dubitar fortemente la varietà, che nei Testi a penna di Vittore si scorge intorno a queste Terme. Io ne ho veduti tre diverse, i quali sono nella liibreria Vaticana, e fra di essi uno, il quale fu già di Pirro Ligorlo, scritto in lettere majuscole, ma non molto antico, nel quale, come per l’appunto nel Vittor del Panvinio, sono poste le Terme di Adriano immodiatamenle avanti le Neroniane, le quali esser poi state detto Alessandrine ivi pur si dichiara, e ciò probabilmente è una delle solite giunte dei Trascrittori.
Negli altri due de’ quali uno è scritto più di trecento anni fa, non vi è alcuna menzione di esse, e solamente vi sono nominate le Terme Agrippine dopo l’Alessandrine; indizio manifesto, che queste sono prese per le medesime con quelle di Adriano, e perciò nel sopradetto Testo del Ligorio dove sono registrate le Terme di Adriano, si tacciono le Agrippine. Ma siasi come ci si vuole, ciò nulla rilieva contra l’autorità chiarissima di Sparziano, il quale raccontando con somma esattezza i fatti di questo Imperatore, afferma, ch’egli non amava d’intitolare da se medesimo le fabbriche, rlie faceva, ed altrove così dice: Cum opera publica infinita fecisset, numquam ipse ni si in Trajani Patris tempio nomen inscripsit. Testimonio sì espresso, ed irrefragabile, che appresso di me non lascia alcun luogo di dubitare, come pur dianzi io diceva, che Adriano abbia fabbricato Terme chiamate col nome suo proprio, e pone in chiaro, che per Terme d’Adriano s’intendessero allora le ristaurate, o accresciute da lui, siccome essere o venuto di quelle di Tito ristaurate, ed adornate da Trajano, e delle altre di Nerone da Alessandro Severo, è opinione della maggior parte degli Antiquari. Il Marliano, ed il Nardino stimano, che Adriano ancora accrescesse, o ristaurasse quelle di Tito, persuasi a ciò dall’essersi trovate vicino a S. Martino de’ Monti in un luogo, che ai tempi di Fulvio si chiamava Adrianello, le due famose statue di Antinoo, che sono in Belvedere; ma io per non disprezzare affatto l’autorità di Vittore, e di Rufo, i quali non le pongono nella terza Regione, come le sopradette di Tito, ma nella nona, mi confermo sempre più in crederle le medesime con quelle di Agrippa da Adriano ristaurate, come si è detto.
Nè dovrà altresì dare occasione ad alcuno di dubitare il non avere Sparziano fatta menzione alcuna nel luogo sopra citato del rifacimento di questo Acquedotto: imperrocché nella ristaurazione, ch’egli dice essere stata fatta da Adriano de’ Bagni di Agrippa, si contiene anche quella dell’Acquedotto come membro di essi, il quale essendo di breve tratto per la vicinanza del Quirinale dell’acqua Vergine, e di poca considerazione in paragone della fabbrica sontuosa, ch’egli dovette fare nelle Terme, può essere stata passata in silenzio da quello Scrittorre, senza che ei meriti per ciò taccia di trascurato, mentre egli ci da a divedere altrove, che degli Acquedotti anche fatti interamente da lui in diversi luoghi non era da tenersi conto per essere eglino innumerabili: Aquarum etiam ductus insinitos hoc nomine nuncupavit. Terminavansi gli archi dell’acqua Vergine lungo la fronte del Septi, se si dee credere a Frontino, il quale nel primo del tratto degli Acquedotti dice, che Arcus Virginis initium habent sub Hortis Lucullianis, finiuntur in Campo Martio secundum frontem Septorum. Era l’edifizio dei Septi anticamente intorno a dove è oggi il Seminario Romano, siccome con argomenti molto probabili dimostra il Nardino già mentovato, dov’egli diffusamente stabilisce questa sua opinione contra quella del Donati, e degli altri Antiquarj, che gli hanno posti in diversi luoghi, come il Fulvio, ed il Biondo in Piazza Colonna, il Marliano, ed altri, vicino alla Fontana di Trevi. In prova di che allegando il sopradetto luogo di Frontino conferma la sua opinione col riscontro di quel pezzo di Acquedotto, che il Donati racconta essere stato scoperto nel cavare i fondamenti della Chiesa di S. Ignazio lungo la facciata di essa e da lui vien minutamente descritto, ed il Nardino dall’ampiezza della forma, che era di quattro palmi di larghezza, e di sette di altezza, e dagli ornamenti delle colonne scannellate, coi capitelli Corintj, del Cornicione di marmo, e degli sporti da collocarvi su statue inferisce questo non poter essere che l’Acquedotto dell’Acqua Vergine, ritrovando in esso per appunto la descrizione, che fa Plinio di questa fabbrica fatta da Agrippa nel tempo, che fu Edile. Da questo spiccandosi l’Acquedotto minore, del quale io parlo, verisimilmente tirando giù a diritto alla Piazza moderna della Rotonda, quivi per non ingombrare il Campo Marzo, uno de’ lati del quale terminavasi alla dirittura del Panthon, e per non togliere la vista di sì maraviglioso Edilizio, torcendo a sinistra, lungo la parte destra di esso dirittamente per la Piazza, che si chiama oggi della Minerva, si conduceva nelle Terme di Agrippa, delle quali è vestigio quella Anticaglia, che nella contrada detta volgarmente della Ciambella si vede incontro alla casa dei Cianti, ovvero per più breve cammino arrivava nelle istesse Terme, mettendo in quella parte di esse, che a mio parere ne rimane in piedi in quei grandi archi, che pure oggi si veggono dietro la Chiesa della Rotonda in un magazzino di legnami, e nelle case vicine, nel sito appunto dove, se crediamo al Fulvio, si vedevano a’ suoi tempi: grandi vestigia delle Terme di Agrippa presso il Pantheon a fronte del Tempio di Minerva; la qual cosa benchè nulla rilievi al fine principale del mio discorso, nulladimeno parmi molto probabile, non sapendo scorgere di qual fabbrica debba credersi essere parte quelle rovine, se non delle Terme di Agrippa, le quali dalla Ciambella essersi distese sino al luogo sopradetto, non parerà strano ad alcuno, che sappia di quale ampiezza si fabbricassero dagli Antichi le Terme, ed abbia alcuna volta considerato la vastezza dell’altre di Caracalla, e di Diocleziano, da quello che ne rimine. Nè in questo io posso acquietarmi nella opinione del Nardino, da me per altro stimato uno dei più giudiziosi fra gli Antiquari, il quale vuole, che gli Archi suddetti sieno del Portico del Buono Evento, raccogliendo ciò da un luogo di Ammiano Marcellino, dove egli dice, che Claudio Prefetto di Roma fabbricò un gran Portico vicino ai Bagni di Agrippa, chiamato del Buono Evento per la vicinanza di un Tempio ad esso prossimo consacrato a questa Dietà.
Ma io m’induco difficilmente a crederlo, poiché dovendo essere la faccia del Portico per quello, che si può ora argomentare, distesa lungo la parte di dietro del Pantheon, ed avanzarsi a proporzione di vestigia sì grandi verso la Ciambella, nel sito, che io stimo essere stato contenuto dalle Terme, verisimilmente poco spazio sarebbe rimasto loro, mentre queste, avvegnachè di ampiezza minore di quelle, che furono poscia fabbricate dagl’imperatori, in ogni modo non potevano occupar quasi meno del sito, che io diceva, e particolarmente dopo la ristaurazione fattane da Adriano, il quale non è probabile, che si fusse contentalo di farsene chiamare ristauratore, senza accrescerle in qualche parte. Che se lo spazio di esse si ristringe a poco intorno alle rovine, che si veggono alla Ciambella, l’altre poste dietro alla Rotonda, non potranno dirsi contigue ad esse, secondo il sentimento di Ammiano, il quale (ed è appresso di me conghiettura gagliardissima e se nel luogo mentovato avesse inteso della fabbrica della quale noi ora vediamo gli avanzi si vicini alla Rotonda) non l’avrebbe chiamata Lavacro Agrippæ contiguam, ma contigua al Pantheon, col quale si poteva quasi dire, che si toccasse, ed era fabbrica senza paragone più riguardevole, e più noti delle Terme di Agrippa, che dopo fabbricate quelle di Caracalla, e di Diocleziano non potevano essere in gran considerazione. Onde io giudico piuttosto, che il Tempio, ed il Portico del Buono Evento fossero fuori del sito delle due strade, che dai due canti della Chiesa della Rotonda portano l’una ai Cesarini, l’altra alle Stimate, o di qua, o di là in sino, che si potessero chiamare contigue alle Terme; mentre la somiglianza della materia, e della struttura fra gli archi posti dietro alla Rotonda, e quegli della Ciambella, l’esser essi nella medesima dirittura, gli dimostra membri di una medesima fabbrica. Ma per ritornare dopo questa breve digressione alla materia propostami: Se alcuno mi oppone non aver potuto l’acqua Vergine sollevarsi a tanta altezza, che fosse di mestieri condurla su gli archi nelle Terme di Agrippa; io rispondo togliersi via agevolmente ogni difficoltà sopra di ciò, se si consideri la differenza del piano moderno dall’antico, e quanto questo fusse più basso di quello.
Di ciò fanno indubitata fede gli Archi del Condotto principale di quest’acqua, ritrovati, come si è detto di sopra, nel fare i fondamenti della fabbrica di Sant’Ignazio, i quali con tutta la loro altezza erano necessariamente per qualche palmo sotto il piano presente. Onde per questa considerazione io stimo, che il muro, nel quale sono stati trovati i mattoni, fosse parte dell’ordine degli archi di sopra dell’acquedotto, onde non debba parer maraviglia, che in esso non siasi trovato alcun vestigio della forma, la quale dovendo portar l’acqua nell’altezza, alla quale potea sollevarsi, bisogna, che fosse sopra il prim’ordine, nascosto ora sotto 11 piano moderno, com’era quello dell’altro descritto dal Donati portante l’acqua medesima. E questo secondo ordine di archi, benchè non servisse nulla, potè forse essere aggiunto all’inferiore necessario al conduttore dell’acqua per ornamento dell’acquedotto, ed acciocchè in paragone di una mole sì sublime, e sì maestosa, quale era il Panteon, che gli stava a ridosso, non apparisse ignobile e sproporzionato; e questo credo io essere stato l’abbellimento fatto da Adriano all’acquedotto vecchio di Agrippa. Nè debbo tralasciare di dire a questo sito, come fra gli altri cementi dello ruine del muro sopraddetto io vidi un pezzo di marmo bianco grosso circa a mezzo palmo, e lungo forse un palmo, e mezzo, nel quale con lettere di buonissima maniera, e elle occupavano tutta l’altezza della faccia, si leggeva
A G R I P P A
e questo portato forse fra le altre pietre spezzate, fu poi cercato da me più volle, ma sempre in, vano. Che se vi è alcuno il quale non si appaghi di questo pensiero, son pronto a mutarlo ogni volta, che da altri mi si dimostri più probabile la sua opinione, e mi si faccia vedere a quale altra sorte di edilizio, che a un acquedotto abbia potuto servire un muro posto sì vicino al Pantheon, che a seguitar la traccia di quel poco, che ve se ne vede rimasto, bisogna, che laddove passava vicino alla circonferenza del tempio, appena tre, o quattro palmi se ne discostasse.
Circa poi alla spiegazione del resto della iscrizione; io son di parere, che le lettere, le quali si vedono nel giro maggiore del sigillo
TERT. D. L. EX. F. CAN. OP. DOLI. I
debbano leggersi cosi: Tertullus Decii Libertus ex figulina Canonis operis doliaris prima2 ovvero operum doliarium prima. Che l’EX. F. debba leggersi ex figulina, apparisce dall’uso vano, che avevano gli antichi di contrasegnare in tal modo simili lavori, come si legge in un mattone quadro, cavato dalle mine di un tempietto, che era nel castro Pretorio, l’iscrizione del quale è fra le altre del Grutero, ed è questa:
EX. AEDICVLA. AVGVSTORUM.
OP. DOL. EX. FIG. C. PANIENSI
HERMETIANI. ET. VRBICI.
E benchè in essa, come in molte altre si vegga scritto
EX. FIG., e non EX. F. questa diversità di ortografia
non è cosa nuova nelle iscrizioni antiche,
nelle quali si trova scritto C. per COL. A. per AED.
Ædilis, S. per SER, Servus, ed altre simili: e forse
in un altra iscrizione, che pure nella raccolta del
Grutero, cavata da un mattone della stessa sorte
EX. FIG, SEX. AT. SILV. F. VI.
la F, vuol dire Figulina; così ancora l’OPVS DOLIARE che in questo è scritto.
OP. DOLI.
nell’iscrizione sopracitata è scritto OP. DOL., e più distesamente in un altro mattone, che è appresso di me, nel quale si legge:
OPVS. DOLIAR. L. BRVTIDI
AVGVSTALIS
Per maggior intelligenza poi della parola Canonis, è da avvertirsi, che i Popoli soggetti all’Imperio Romano diversamente, e con varie sorti di tributi riconoscevano quel dominio, che allora terminavasi con gl’istessi confini del mondo. I Lepitani popoli di Mauritania pagavano il lor tributo in olio. I Francesi, e gli Spagnuoli in Cavalli. Quei di Basilicata in Porci: quelli della Calabria inferiore in Buoi; e ciò che fa maggiormente al proposito nostro gli Umbri, i Marchigiani, e quelli della Terra di Lavoro erano obbligati a provvedere in Roma tre mila carrettate di calcina; e i Toscani novecento ottanta, siccome si ha nel libro terzo del Codice Teodosiano al titolo de calcis coct. ed è stato osservato dal Panzirolo nella notizia dell’uno, e l’altro imperio. Dall’altra parte la voce Canon appresso gli Scrittori della storia Augusta suona una certa quantità di qualsisia cosa, benché propriamente dai medesimi autori ella si usasse per ispiegare la quantità del grano, che era necessario al mantenimento di Roma per uno, o più anni, e fra gli altri titoli del Codice Teodosiano sopra mentovato vi è il 15 de Canone frumentario Urbis Romæ. Così Sparziano nella vita di Severo Rei frumentariæ quam minimam reliquerat, ita consulit, ut excedens vita septem annorurn canonem Pop. Hom relinqueret. E Lampridio in quella di Eliogabalo; Jusserat et canonem Pop. Rom. unius anni meretricibus, lenonibus exoletis intramuranis dari, extramuranis alio promisso E Vopisco in un editto Aureliano riferito da lui nella vita di Firmo: Canon Ægjpti, qui suspensus per latronem improbum fuerat, integer veniret, si vobis esset cum Senatu concordia, cum Equestri ordine amicitia, cum Praetorianis affectio.
Ma dagli scrittori dei tempi più bassi si usa più particolarmente il suddetto vocabolo, in sentimento di un tributo di qualsivoglia sorte di cosa, che dai popoli soggetti pagavasi anticamente agi’ Imperatori, donde stimo io aver origine nella nostra volgar lingua la voce Canone, significante quel diritto, che si paga annualmeale da chi fabbrica nell’altrui suolo al padrone di esso. Usolla nel sentimento sopradetto Cassiodoro, laddove scrivendo in nome del re Teodorico ad Ampelio, e Liveria, oltre molti altri avvertimenti, che da loro circa al buon governo delle provincie; che essi reggevano, così dice; Transmarinorum igitur Canonem, ubi non pauca fraus fieri utilitatibus publicis intimatur, vos attente jubemus exquirere e più a basso nella medesima lettera: Telonei quin etiam Canonem nulla faciatis usurpatione confundi. Dalla voce Κανων deriva quella di Κανονικον interpretata dal Meursio nel suo vocabolario greco barbaro per tributum ordinarium.
In prova della interpretazione del quale è insigne un luogo della bolla aurea dell’Imperatore Isacio Comneno, allegato da Teodoro Balsamone nei Commentar) a Fozio nel titolo primo de Fide, nel quale dichiarando quell’Imperatore quanto si dovesse pagare dai Sacerdoti nelle ordinazioni ai Vescovi, ed agli Arcivescovi, soggiugne queste parole: ὡσαύτως καὶ ὑπὲρ τοῦ κανονικοῦ ἀπὸ τοῦ ἔχοντος χωρίου λ καπνούς νόμισμα ἕν χρυσοῦ, ὅμοιον ἀργυρᾶ δύο, κρίον ἕνα, κύρπου μοδίους ἕξ, οἴνου μέτρα ἕξ, ἀλούρου μοδια ἕξ, καί ορνιθια λ. Le quali così possono volgarizzarsi e parimente per tributo ordinario da chi possederà trenta fumieri di terreno (è questa una sorte di misura) una moneta di oro, similmente due di argento, un montone, sei moggia di grano, sei misure di vino, sei moggia di farina, e trenta galline. Quindi è, che Canonici solidi chiamavasi quella moneta, con cui si pagava il tributo, siccome osservò il Salmasio nei Commentar) sopra la Storia Augusta coll’autorità del seguente luogo di Cassiodoro: Superbia deinde conductorum canonicos solidos non jure traditos, sed sub iniquo pondere immiinentibus fuisse projectos. E Canonicarj dicevansi quelli che gli riscotevano, il che apparisce, e dall’Epistole di Cassiodoro medesimo, e dall’Autentica CXXII. dell’imperatore Giustiniano, nella quale egli chiama col nome di Canonicarj quelli, che riscuotevano li tributi Fiscali. Stabilite adunque per vere quanto alla Storia queste due cose, io discorro così: Che essendo stati soliti i Popoli soggetti all’Imperio Romano di dare in tributo diverse sorte di cose, eziandio vili, e di poco prezzo, come la calcina, e simili, vi fusse nei tempi di Adriano qualche Popolo, o Città, il quale fusse tenuto a provedere ogni anno, o generalmente in tributo agl’Imperatori, o spezialmente per risarcimento delle fabbriche pubbliche, una certa quantità di lavoro di terra cotta; e che perciò questi tenessero per maggior commodità, e minor loro aggravio più di una bottega di Fornaciaj aperta in Roma, i quali fabbricando e tegole, e mattoni a lor conto, li contrassegnassero in guisa con quelle parole ex figulina Canonis operis doliaris, che tenendosi il conto di essi da quelli che avevano la cura delle fabbriche, nelle quali i lavori s’impiegavano di mano in mano, si potesse al fine dell’anno vedere, se essi avevano soddisfatto all’obbligo, o di quanto lavoro, a conto del tributo, restassero debitori: e che per poter poi riveder essi i conti ai lor Ministri di quello, che facevano (essendo verisimilmente le botteghe più di una per la quantità, che di ragione dovevano farne il pagamento del tributo, trattandosi di materia di sì vil prezzo) vi segnassero anche il numero di esse cioè ex Figulina I. II III. e così di mano in mano; nè è cosa inverisimile, che nell’Iscrizione mentovata di sopra
EX. FIG. SEX. AT. SILV. P. VI.
i segni numerali VI, che nel fine di essa si leggono, significhino il numero della Figulina. Il ritrovar poi qual fusse quella Città, o quel Popolo, che desse un simil tributo ai Romani, è per certo cosa difficile, ma se io dovessi torre ad indovinare, direi, che fusse stato un Popolo di Toscana, perché essendo cominciala in quella Provincia, secondo Plinio, prima che in ogni altra parte d’Italia l’arte del lavoro di creta, portato quivi di Corinto da Eucaro, ed Eugrammo, i quali accompagnarono Demarato Corintio nel fuggirsi, che egli fece da quella Città, non è lontano dal verisimile, che in progresso di tempo si aumentasse nella Toscana l’uso di essa, e che per questa ragione, come di cosa lor propria, e particolare pagassero il tributo all’Imperio Romano i Toscani. Anzi Varrone citato dallo stesso Plinio, parlando di quest’arte narra che ella in Italia si perfezionò molto e spezialmente in Toscana. Che che sia di questa mia conghiettura, che come tale specialmente intendo di sottoporla al vostro purgatissimo giudizio, io vi ho liberamente detto quello, che mi è passato per la mente potersi dire di questo muro, e della Iscrizione del mattone cavato da esso: nella qual cosa se io non avrò conseguito la verità ricercala, questo avrò io certamente conseguito di farvi conoscere nell’indirizzarvi questo Discorso la stima singolare, che io, conformandomi al concetto, che ha degnamente di voi l’universale degli uomini eruditi, professo di fare del vostro merito. Se poi parerà ad alcuno, che di cosa sì piccola, e di niuna considerazione degna troppo gran caso io abbia fatto, e perdutovi troppo tempo, io dico loro, che se egli è vero ciò, che Cicerone era era solito di dire, che Nescire quid antequam nascereris actum sit, id vero est semper esse puerum: adunque il ricercare non solo le cose grandi della Antichiià, ma le piccole ancora è un allontanarsi tanto maggiormente dalla volgare schiera di coloro, i quali nulla curando delle cose fatte innanzi a loro, come se ogni giorno, anzi ogni momento venissero nuovi al Mondo, meritan di esser chiamati da un si grand’uomo con nome di Fanciulli. Vivete felice.
Fine della Lettera di Ottavio Falconieri
Note
- ↑ Questa varietà di anteporre, e posporre l’un Console all’altro, l’ho osservata ne’ Sigilli con PAETIN. ET APRON. COS., avendone anche altri con APRON. ET PAETIN. COS. onde vi sarà altra cagione. Monsig. Fabretti in una sua Nota manoscritta a questo luogo del Falconieri.
- ↑ Monsig. Fabretti in una sua Nota a penna nell’esemplare, che teneva di questo Discorso impresso unitamente colla ROMA ANTICA, fino dal tempo della prima edizione, pretende, che la qui riferita parte d’Iscrizione debba leggersi diversamente da quello, che fa il Falconieri, allegando a suo favore un Sigillo nel Portico di San Lorenzo fuori delle Mura colle seguenti lettere TERTIVS DOM LUC. alle quali soggiunse egli, cioè DOMINAE LVCILLAE, come in altri per extensum si raccoglie: onde la spiegazione dell’Autore va a spasso. Chi delli due abbia ragione, lascieremo, che lo decidino quelli, che hanno fatto tesoro in lor mente delle più recondite, e sublimi cognizioni Lapidarie.