Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Agostino et Agnolo

Agostino et Agnolo

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Giotto Stefano e Ugolino

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VITA DI AGOSTINO ET AGNOLO SCULTORI ET ARCHITETTI SANESI

Fra gl’altri che nella scuola di Giovanni e Nicola scultori pisani si esercitarono, Agostino et Agnolo scultori sanesi, de’ quali al presente scriviamo la vita, riuscirono secondo que’ tempi eccellentissimi. Questi, secondo che io trovo, nacquero di padre e madre sanesi, e gli antenati loro furono architetti: conciò sia che l’anno 1190 sotto il reggimento de’ tre Consoli, fusse da loro condotta a perfezzione Fontebranda, e poi l’anno seguente, sotto il medesimo consolato, la Dogana di quella città et altre fabriche. E nel vero si vede che i semi della virtù, molte volte, nelle case dove sono stati per alcun tempo, germogliano e fanno rampolli, [p. 135 modifica]che poi producono maggiori e migliori frutti, che le prime piante fatto non avevano. Agostino, dunque, et Agnolo aggiugnendo molto miglioramento alla maniera di Giovanni e Nicola Pisani, arricchirono l’arte di miglior disegno et invenzione, come l’opere loro chiaramente ne dimostrano. Dicesi che tornando Giovanni sopra detto da Napoli a Pisa l’anno 1284, si fermò in Siena a fare il disegno e fondare la facciata del Duomo, dinanzi dove sono le tre porte principali, perchè si adornasse tutta di marmi riccamente; e che allora non avendo più che quindici anni, andò a star seco Agostino per attendere alla scultura, della quale aveva imparato i primi principii, essendo a quell’arte non meno inclinato, che alle cose d’architettura. E così sotto la disciplina di Giovanni, mediante un continuo studio, trapassò in disegno, grazia e maniera tutti i condiscepoli suoi, intanto che si diceva per ognuno che egli era l’occhio diritto del suo maestro. E perchè nelle persone che si amano si disiderano, sopra tutti gli altri beni o di natura o d’animo o di fortuna, la virtù che sola rende gli uomini grandi e nobili, e, più, in questa vita e nell’altra felicissimi, tirò Agostino, con questa occasione di Giovanni, Agnolo suo fratello minore al medesimo esercizio. Nè gli fu il ciò fare molta fatica; perchè il praticar d’Agnolo con Agostino e con gli altri scultori, gl’aveva di già, vedendo l’onore e utili che traevano di cotal arte, l’animo acceso d’estrema voglia e disiderio d’attendere alla scultura: anzi prima che Agostino a ciò avesse pensato, aveva fatto Agnolo nascosamente alcune cose. Trovandosi dunque Agostino a lavorare con Giovanni la tavola di marmo dell’altar maggiore del Vescovado d’Arezzo, della quale si è favellato di sopra, fece tanto, che vi condusse il detto Agnolo suo fratello, il quale si portò di maniera in quell’opera, che finita ch’ella fu, si trovò avere nell’eccellenza dell’arte raggiunto Agostino. La qual cosa conosciuta da Giovanni, fu cagione che dopo questa opera si servì dell’uno e dell’altro in molti altri suoi lavori, che fece in Pistoia, in Pisa, et in altri luoghi. E perchè attesero non solamente alla scultura ma all’architettura ancora, non passò molto tempo che reggendo in Siena i Nove, fece Agostino il disegno del loro palazzo in Malborghetto, che fu l’anno 1308. Nel che fare si acquistò tanto nome nella patria, che, ritornati in Siena dopo la morte di Giovanni, furono l’uno e l’altro fatti architetti del publico; onde poi l’anno 1317 fu fatta per loro ordine la facciata del Duomo che è volta a settentrione, e l’anno 1321, col disegno de’ medesimi, si cominciò a murare la porta Romana in quel modo che ell’è oggi, e fu finita l’anno 1326; la qual porta si chiamava prima porta S. Martino. Rifeciono anco la porta a Tufi, che prima si chiamava la porta di S. Agata all’arco. Il medesimo anno fu cominciata col disegno degli stessi Agostino et Agnolo la chiesa e convento di S. Francesco, intervenendovi il cardinale di Gaeta legato apostolico. Nè molto dopo per mezzo d’alcuni de’ Tolomei, che come esuli si stavano a Orvieto, furono chiamati Agostino et Agnolo a fare alcune sculture per l’opera di S. Maria di quella città. Per che andati là, fecero di scultura in marmo alcuni profeti, che sono oggi, fra l’altre opere di quella facciata, le migliori e più proporzionate di quell’opera tanto nominata. Ora, avvenne l’anno 1326, come si è detto nella sua vita, che Giotto fu chiamato per mezzo di Carlo duca di Calavria, che allora dimorava in Fiorenza, a Napoli, per fare [p. 136 modifica]al re Ruberto alcune cose in S. Chiara et altri luoghi di quella città: onde passando Giotto nell’andar là da Orvieto per veder l’opere, che da tanti uomini vi si erano fatte e facevano tuttavia, che egli volle veder minutamente ogni cosa. E perchè più che tutte l’altre sculture gli piacquero i profeti d’Agostino e d’Agnolo sanesi, di qui venne che Giotto non solamente gli commendò, e gli ebbe con molto loro contento nel numero degli amici suoi, ma che ancora gli mise per le mani a Piero Saccone da Pietramala, come migliori di quanti allora fussero scultori, per fare, come si è detto nella vita d’esso Giotto, la sepoltura del vescovo Guido, signore e vescovo d’Arezzo. E così, adunque, avendo Giotto veduto in Orvieto l’opere di molti scultori, e giudicate le migliori quelle d’Agostino et Agnolo sanesi, fu cagione che fu loro data a fare la detta sepoltura, in quel modo però che egli l’aveva disegnata, e secondo il modello che esso aveva al detto Piero Saccone mandato. Finirono questa sepoltura Agostino et Agnolo in ispazio di tre anni, e con molta diligenza la condussono e murarono nella chiesa del Vescovado di Arezzo nella capella del Sagramento; sopra la cassa, la quale posa in su certi mensoloni intagliati più che ragionevolmente, è disteso di marmo il corpo di quel vescovo, e dalle bande sono alcuni Angeli che tirano certe cortine assai acconciamente. Sono poi intagliate di mezzo rilievo in quadri dodici storie della vita e fatti di quel vescovo, con un numero infinito di figure piccole; il contenuto delle quali storie, acciò si veggia con quanta pacienza furono lavorate, e che questi scultori studiando cercarono la buona maniera, non mi parrà fatica di raccontare. Nella prima è quando aiutato dalla parte ghibellina di Milano, che gli mandò quattrocento muratori e danari, egli rifà le mura d’Arezzo tutte di nuovo, allungandole tanto più che non erano, che dà loro forma d’una galea; nella seconda è la presa di Lucignano di Valdichiana; nella terza quella di Chiusi; nella quarta quella di Fronzoli, castello allora forte sopra Poppi, e posseduto dai figliuoli del conte di Battifolle; nella quinta è quando il castello di Rondine, dopo essere stato molti mesi assediato dagl’Aretini, si arrende finalmente al vescovo; nella sesta è la presa del castello del Bucine in Valdarno; nella settima è quando piglia per forza la Rocca di Caprese, che era del conte di Romena, dopo averle tenuto l’assedio intorno più mesi; nell’ottava è il vescovo che fa disfare il castello di Laterino e tagliare in croce il poggio che gli è sopra posto, acciò non vi si possa far più fortezza; nella nona si vede che rovina e mette a fuoco e fiamma il Monte Sansavino, cacciandone tutti gli abitatori; nell’undecima è la sua incoronazione, nella quale sono considerabili molti begli abiti di soldati a piè et a cavallo e d’altre genti; nella duodecima finalmente si vede gli uomini suoi portarlo da Montenero, dove ammalò, a Massa, e di lì poi, essendo morto, in Arezzo. Sono anco intorno a questa sepoltura in molti luoghi l’insegne ghibelline e l’arme del vescovo, che sono sei pietre quadre d’oro in campo azzurro, con quell’ordine che stanno le sei palle nell’arme de’ Medici. La quale arme della casata del vescovo fu descritta da frate Guittone cavaliere e poeta aretino, quando scrivendo il sito del castello di Pietramala, onde ebbe quella famiglia origine, disse:

Dove si scontra il Giglion con la Chiassa,

[p. 137 modifica]ivi furono i miei antecessori, che in campo azzurro d’or portan sei sassa.

Agnolo dunque e Agostino sanesi condussono questa opera con miglior arte et invenzione e con più diligenza, che fusse in alcuna cosa stata condotta mai a’ tempi loro. E nel vero non deono se non essere infinitamente lodati, avendo in essa fatte tante figure, tante varietà di siti, luoghi, torri, cavalli, uomini et altre cose, che è proprio una maraviglia. Et ancora che questa sepoltura fusse in gran parte guasta dai Franzesi del duca d’Angiò, i quali per vendicarsi con la parte nimica d’alcune ingiurie ricevute, messono la maggior parte di quella città a sacco, ella nondimeno mostra che fu lavorata con bonissimo giudizio da Agostino et Agnolo detti, i quali v’intagliarono in lettere assai grandi queste parole: Hoc opus fecit magister Augustinus et magister Angelus de Senis. Dopo questo, lavorarono in Bologna una tavola di marmo per la chiesa di S. Francesco l’anno 1329, con assai bella maniera, et in essa oltre all’ornamento d’intaglio che è ricchissimo, feciono di figure alte un braccio e mezzo un Cristo che corona la Nostra Donna, e da ciascuna banda tre figure simili, S. Francesco, S. Jacopo, S. Domenico, S. Antonio da Padoa, S. Petronio e S. Giovanni Evangelista; e sotto ciascuna delle dette figure è intagliata una storia di basso rilievo della vita del Santo che è sopra; e in tutte queste istorie è un numero infinito di mezze figure, che secondo il costume di que’ tempi fanno ricco e bello ornamento. Si vede chiaramente che durarono Agostino et Agnolo in quest’opera grandissima fatica, e che posero in essa ogni diligenza e studio per farla, come fu veramente, opera lodevole; et ancor che siano mezzi consumati, pur vi si leggono i nomi loro et il millesimo, mediante il quale, sapendosi quando la cominciarono, si vede che penassono a fornirla otto anni interi; ben è vero che in quel medesimo tempo fecero anco molte altre cosette in diversi luoghi et a varie persone. Ora, mentre che costoro lavoravono in Bologna, quella città mediante un legato del Papa si diede liberamente alla chiesa, e il Papa all’incontro promise che anderebbe ad abitar con la corte a Bologna, ma che per sicurtà sua voleva edificarvi un castello o vero fortezza. La qual cosa essendogli conceduta dai bolognesi, fu con ordine e disegno di Agostino e d’Agnolo tostamente fatta; ma ebbe pochissima vita; perciò che, conosciuto i bolognesi che le molte promesse del Papa erano del tutto vane, con molto maggior prestezza che non era stata fatta, disfecero e rovinarono la detta fortezza. Dicesi che mentre dimoravano questi due scultori in Bologna, il Po con danno incredibile del territorio mantoano e ferrarese, e con la morte di più che diecimila persone che vi perirono, uscì impetuoso del letto, e rovinò tutto il paese all’intorno per molte miglia, e che perciò chiamati essi, come ingegnosi e valenti uomini, trovarono modo di rimettere quel terribile fiume nel luogo suo, serrandolo con argini et altri ripari utilissimi; il che fu con molta loro lode et utile: perchè oltre che n’acquistarono fama, furono dai Signori di Mantoa e dagl’Estensi con onoratissimi premii riconosciuti. Essendo poi tornati a Siena l’anno 1338, fu fatta con ordine e disegno loro la chiesa nuova di S. Maria, appresso al Duomo vecchio verso piazza Manetti; e non molto dopo, restando molto sodisfatti i Sanesi di tutte l’opere che costoro facevano, deliberarono con sì [p. 138 modifica]fatta occasione di mettere ad effetto quello di che si era molte volte ma invano insino allora ragionato, cioè di fare una fonte publica in su la piazza principale e dirimpetto al palagio della Signoria. Per che, datone cura ad Agostino et Agnolo, eglino condussono per canali di piombo e di terra, ancor che molto difficile fusse, l’acqua di quella fonte, la quale cominciò a gettare l’anno 1343 a dì primo di giugno, con molto piacere e contento di tutta la città, che restò per ciò molto obligata alla virtù di questi due suoi cittadini. Nel medesimo tempo si fece la sala del consiglio maggiore nel palazzo del publico; e così fu con ordine e col disegno dei medesimi condotta al suo fine la torre del detto palazzo l’anno 1344, e postovi sopra due campane grandi, delle quali una ebbono da Grosseto e l’altra fu fatta in Siena. Trovandosi finalmente Agnolo nella città d’Ascesi, dove nella chiesa di sotto di S. Francesco fece una capella e una sepoltura di marmo per un fratello di Napoleone Orsino, il quale essendo cardinale e frate di S. Francesco, s’era morto in quel luogo; Agostino, che a Siena era rimaso per servigio del publico, si morì mentre andava facendo il disegno degl’ornamenti della detta fonte di piazza, e fu in Duomo orrevolmente sepellito. Non ho già trovato, e però non posso alcuna cosa dirne, nè come nè quando morisse Agnolo, nè manco altre opere d’importanza di mano di costoro, e però sia questo il fine della vita loro. Ora, perchè sarebbe senza dubbio errore, seguendo l’ordine de’ tempi, non fare menzione d’alcuni, che sebbene non hanno tante cose adoperato che si possa scrivere tutta la vita loro, hanno nondimeno in qualche cosa aggiunto commodo e bellezza all’arte e al mondo, pigliando occasione da quello che di sopra si è detto del Vescovado d’Arezzo e della Pieve, dico che Pietro e Paolo orefici aretini, i quali impararono a disegnare da Agnolo et Agostino sanesi, furono i primi che di cesello lavorarono opere grande di qualche bontà; perciò che per un arciprete della Pieve d’Arezzo condussono una testa d’argento grande quanto il vivo, nella quale fu messa la testa di S. Donato vescovo e protettore di quella città: la quale opera non fu se non lodevole, sì perchè in essa feciono alcune figure smaltate assai belle et altri ornamenti, e sì perchè fu delle prime cose che fussero, come si è detto, lavorate di cesello. Quasi ne’ medesimi tempi o poco inanzi, l’Arte di Calimara di Firenze fece fare a maestro Cione orefice eccellente, se non tutto, la maggior parte dell’altare d’argento di S. Giovanni Batista, nel quale sono molte storie della vita di quel Santo, cavate d’una piastra d’argento in figure di mezzo rilievo, ragionevoli; la quale opera fu, e per grandezza e per essere cosa nuova, tenuta da chiunche la vide maravigliosa. Il medesimo maestro Cione l’anno 1330, essendosi sotto le volte di S. Reparata trovato il corpo di S. Zanobi, legò in una testa d’argento grande quanto il naturale quel pezzo della testa di quel Santo, che ancora oggi si serba nella medesima d’argento e si porta a processione: la quale testa fu allora tenuta cosa bellissima, e diede gran nome all’artefice suo, che non molto dopo, essendo ricco et in gran reputazione, si morì. Lasciò maestro Cione molti discepoli, e fra gli altri Forzore di Spinello aretino, che lavorò d’ogni cesellamento benissimo, ma in particolare fu eccellente in fare storie d’argento a fuoco smaltate, come ne fanno fede nel Vescovado [p. 139 modifica]d’Arezzo una mitera con fregiature bellissime di smalti et un pasturale d’argento molto bello. Lavorò il medesimo al cardinale Galeotto da Pietramala molte argenterie, le quali dopo la morte sua rimasero ai frati della Vernia, dove egli volle essere sepolto e dove, oltre la muraglia che in quel luogo il conte Orlando signor di Chiusi, picciol castello sotto la Vernia, avea fatto fare, edificò egli la chiesa e molte stanze nel convento, e per tutto quel luogo, senza farvi l’insegna sua o lasciarvi altra memoria. Fu discepolo ancora di maestro Cione, Lionardo di ser Giovanni fiorentino, il quale di cesello e di saldature, e con miglior disegno che non avevano fatto gl’altri inanzi a lui, lavorò molte opere, e particolarmente l’altare e tavola d’argento di S. Iacopo di Pistoia; nella quale opera, oltre le storie che sono assai, fu molto lodata la figura che fece in mezzo, alta più d’un braccio, d’un S. Iacopo, tonda e lavorata tanto pulitamente, che par più tosto fatta di getto che di cesello; la qual figura è collocata in mezzo alle dette storie nella tavola dell’altare, intorno al quale è un fregio di lettere smaltate che dicono così: Ad honorem Dei et Sancti Jacobi Apostoli hoc opus factum fuit tempore Domini Franc. Pagni dictae operae operarii sub anno 1371, per me Leonardum Ser Io. de Floren. aurific. Ora, tornando a Agostino e Agnolo, furono loro discepoli molti che dopo loro feciono molte cose d’architettura e di scultura in Lombardia et altri luoghi d’Italia, e fra gl’altri maestro Iacopo Lanfrani da Vinezia, il quale fondò S. Francesco d’Imola e fece la porta principale di scultura, dove intagliò il nome suo et il millesimo, che fu l’anno 1343; et in Bologna nella chiesa di S. Domenico, il medesimo maestro Iacopo fece una sepoltura di marmo per Giovanni Andrea Calduino dottore di legge e segretario di papa Clemente Sesto, et un’altra, pur di marmo e nella detta chiesa molto ben lavorata, per Taddeo Peppoli conservator del popolo e della Iustizia di Bologna; et il medesimo anno, che fu l’anno 1347, finita questa sepoltura, o poco inanzi, andando maestro Iacopo a Vinezia sua patria, fondò la chiesa di S. Antonio che prima era di legname, a richiesta d’uno abate fiorentino dell’antica famiglia degl’Abati, essendo doge messer Andrea Dandolo: la quale chiesa fu finita l’anno milletrecentoquarantanove. Iacobello ancora e Pietro Paulo viniziani, che furono discepoli d’Agostino e d’Agnolo, feciono in S. Domenico di Bologna una sepoltura di marmo per messer Giovanni da Lignano, dottore di legge, l’anno 1383. I quali tutti e molti altri scultori andarono per lungo spazio di tempo seguitando in modo una stessa maniera, che n’empierono tutta l’Italia. Si crede anco che quel pesarese, che oltre a molte altre cose fece nella patria la chiesa di S. Domenico, e di scultura la porta di marmo con le tre figure tonde, Dio Padre, S. Giovanni Batista, e S. Marco, fusse discepolo d’Agostino e d’Agnolo, e la maniera ne fa fede. Fu finita questa opera l’anno 1385. Ma perchè troppo sarei lungo se io volessi minutamente far menzione dell’opere che furono da molti maestri di que’ tempi fatte di questa maniera, voglio che quello che n’ho detto così in generale per ora mi basti; e massimamente non si avendo da cotali opere alcun giovamento, che molto faccia per le nostre arti. De’ sopra detti mi è paruto far menzione, perchè, se non meritano che di loro si ragioni a lungo, non sono anco dall’altro lato stati tali, che si debba passarli del tutto con silenzio.

FINE DELLA VITA D’AGOSTINO ET AGNOLO