Le piacevoli notti/Notte XIII/Favola IV
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FAVOLA IV.
Io più volte ho udito dire, prestantissimi signori miei, che gli peccati che non si commetteno coll’animo, non sono così gravi, come se volontariamente si commettessero; e da qua procede che si perdona alla rusticità, alli fanciulli e ad altre simili persone, le quali non peccano sì gravemente, come quelle persone che sanno. Laonde, essendomi tocca la volta di raccontarvi una favola, mi occorse alla mente quello che avenne a Fortunio servo, il qual volendo, amazzare una mosca canina che annoiava il suo patrone, inavertentemente uccise esso patrone.
Era nella città di Ferrara un speciale assai ricco, e di buona famiglia, e, aveva un servo chiamato per nome Fortunio, giovane tondo e di poco senno. Avenne ch’l patrone per lo gran caldo, che all’ora era, s’addormentò; e Fortunio col ventolo li cacciava le mosche, acciò che potesse meglio dormire. Avenne che tra l’altre mosche ve n’era una canina molto importuna, la quale, non curandosi di ventolo nè di percosse, s’accostava alla calvezza di quello, e con acuti morsi non cessava di morderlo; e avendola indi cacciata due, tre e quattro volte, ritornava a darli fastidio. Finalmente, vedendo Fortunio la temerità e presonzione dell’animale, nè potendo più resistere, imprudentemente si pensò di amazzarla. E stando la mosca sopra la calvezza del patrone, e succiandogli il sangue, Fortunio servo, uomo semplice e inconsiderato, preso un pistello di bronzo di gran peso, e quello con gran forza ammenando, pensando di uccider la mosca, uccise il patrone. Onde vedendo in fatto aver ucciso il suo signore, e per tal causa esser obligato alla morte, si pensò di fuggire, e con la fuga salvarsi. Indi revocata tal sentenzia, deliberò con bel modo secretamente di sepellirlo; e ravoltolo in un sacco, e portatolo in un orto alla bottega vicino, il sepellì. Poscia prese un becco delle capre e gettollo nel pozzo. Il patrone non ritornando a casa la sera, come soleva sempre, la moglie cominciò pensar male del servo; e addimandandoli del suo marito, egli diceva non averlo veduto. All’ora la donna, tutta addolorata, cominciò dirottamente a piangere e con lamentevoli voci chiamare il suo marito; ma in vano lo chiamava. I parenti e gli amici della donna, intendendo non trovarsi il marito, andarono al Rettore della città e accusorono Fortunio servo, dicendogli che lo facesse porre in prigione e dargli della corda, acciò che il manifestasse quello che era del suo patrone. Il Rettore, fatto prendere il servo, e fattolo legare alla fune, stanti gli indizi che di lui s’avevano, secondo le leggi gli diede la corda. Il servo, che non poteva sofferire il tormento, promise manifestar la verità, se lo lasciavano giù. E deposto giù della corda, e constituito dinanzi al Rettore, con astuto inganno disse tai parole: Ieri, essendo io addormentato, sentii un gran strepito, come se fusse stato gettato in acqua un gran sasso; io mi stupii di tal strepito, e andato al pozzo, risguardai nell’acqua e viddi che l’era chiara, nè guardai più oltra; mentre che io ritornavo, sentii un altro simil strepito e mi fermai. Nel vero penso che quel sia stato il patron mio, che volendo attinger l’acqua, sia caduto in pozzo. E acciò che la verità non stia sospesa: ma che dalle sospizioni ne nasca vera e giusta sentenzia, andiamo al loco, perciò che io subito descenderò nel pozzo e vedrò quel che sarà. Volendo adunque il Rettore far isperienza di quello che aveva detto il servo, perciò che l’isperienza è maestra delle cose e la prova che si fa con gli occhi è sempre opportuna e vie più dell’altre migliore, andò al pozzo con tutta la sua corte e con molti gentil’uomini che l’accompagnorono; e con loro v’andarono del popolo molti, che erano assai curiosi di veder questa cosa. Ed ecco che il reo, di commandamento del Rettore, discese nel pozzo; e cercando il patrone per l’acqua trovò il becco che vi aveva gettato. Onde astutamente e con inganno, gridando ad alta voce, chiamò la sua patrona, dicendole: patrona, ditemi, il vostro marito aveva egli le corna? Io ho trovato qua dentro uno che ha le corna molto grandi e lunghe; sarebbelo mai il vostro marito? All’ora la donna, da vergogna soprapresa, si tacque, nè pur disse una parola. I circonstanti stavano in aspettazione di veder questo morto; e tiratolo suso, poi che videro che egli era un becco, festeggiando con le mani e coi piedi, scoppiavano di ridere. Il Rettore, veduto il caso, giudicò il servo di buona fede, e come innocente l’assolse; nè mai si seppe del patrone cosa alcuna, e la donna con la macchia delle corna rimase.
Risero gli uomini parimenti e le donne del becco ritrovato nel pozzo, e molto più della donna che mutola era rimasa. Ma perchè l’ora passava, e molti avevano a ricitar il suo verso, la signora Veronica, senza altro comandamento, il suo enimma in tal maniera propose.
Vivo co’l capo in sabbia sotterrato,
E stò giocondo, e senza alcun pensiero.
Giovane son, nè appena fui ben nato,
Che tutto bianco, anzi canuto io ero.
La coda verde, e poco apprecciato
Son dal popolo grande, ricco, altero;
Caro sol m’ha la gente vile e bassa,
Chè mia bontà fra gran signor non passa.
Piacque a ciascuno l’enimma dalla signora Veronica raccontato; e quantunque fusse quasi in gran parte da tutti inteso, nondimeno non volse alcuno attribuirsi l’onore in esponerlo: ma lasciò la cura a lei, che l’interpretasse. La quale, veggendo che ogn’uno taceva, disse: Avenga che io sia la minima tra voi, non però resterò col mio poco ingegno di dichiarirlo, sottomettendomi tuttavia a’ più sani di me. L’intelletto adunque del mio basso enimma è il porro, che sta con il capo bianco in terra, e ha la coda verde ed è cibo non di signori, ma di gente minuta. Finita l’isposizione del vago enimma, la Signora impose al signor Bernardo Capello, che partecipasse con esso noi una delle sue favole, usando però quella brevità che a questa notte si conviene. Il quale, lasciando da canto ogni suo grave pensiero, così a dire incominciò.