Le piacevoli notti/Notte XII/Favola V
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FAVOLA V.
Sì belle e sì acute sono state le novelle che hanno recitate queste nostre sorelle, che io dubito per la bassezza dell’ingegno mio mancar per via. Non però voglio desistere dal bell’ordine cominciato; e avenga che la nevella, che raccontar intendo, sia stata descritta da messer Giovanni Boccaccio nel suo Decamerone, non però è detta nella maniera che voi udirete; perciò che vi ho giunto quello, che la fa più laudevole.
Sisto quarto, pontefice massimo, di nazione Genovese, nasciuto in Savona, città marittima, per avanti chiamato Francesco da Rovere, nella sua giovanezza a Napoli, andando alla scola, ebbe appresso di sè un cittadino, suo compatriota, detto Gierolomo da Riario, il quale lo serviva continoamente, e servillo non solo mentre andava alla scola, ma ancora dopo fatto monaco e prelato. E poi che ascese alla gran dignità pontificia, quello sempre giustamente e con gran fede servendo, s’era invecchiato; ed essendo Sisto, sì come è usanza, per la subita morte di Paolo, sommo pontefice, in luogo di lui elevato alla suprema pontifical dignità, sovenne ai servitori e domestici suoi per servizii da lor ricevuti, e quelli rimunerò largamente e oltre misura, eccetto questo Gierolomo, il quale, per la sua fedel servitù e pel troppo amore, fu pagato di oblivione e ingratitudine. Il che penso più tosto essere avvenuto per certa sua sciagura, che per alcun’altra cagione. Onde il detto Gierolomo, di mala voglia e da gran dolore soprapreso, desiderò dimandar licenza di partirsi e ritornare nella patria sua; e ingenocchiatosi al conspetto di sua beatitudine, ottenne la licenza. E tanta fu l’ingratitudine di esso pontefice, che non solamente non gli diede danari, cavalli e famigli; ma fu constretto, ch’è il peggio, a render ragione di quanto aveva maniggiato, come fece quel Scipione Africano, il qual puose ragione in publico al popol romano delle sue ferite, veggendosi rimunerar di essilio per lo premio di suoi gran fatti. E nel vero bene si dice che niun maggior male ha la cupidità, quanto che gli è ingrata. Così adunque partendosi da Roma e andando verso Napoli, mai pur una parola non gli cascò dalla bocca, se non che, passando per certa acqua che era pel viaggio, s’intratenne il cavallo per esserli venuta volontà di stalare; e stalò ivi, aggiungendo acqua all’acqua. E ciò veggendo Gierolomo: Ben ti veggio, disse egli, simele di mio patrone, il quale, facendo ogni cosa senza misura, mi ha lasciato venir a casa senza remunerazione alcuna, ed hammi dato licenzia per premio della mia lunga fatica. E che cosa è più misera di colui, al qual cascano e periscono e’ benefici, e s’accostano l’ingiurie? Il famiglio che lo seguitava, ripose queste parole nella memoria, e giudicò che il detto Gierolomo superasse Muzio, Pompeio e Zenone di pazienza; e così andando, arrivarono a Napoli. Il famiglio, presa licenza e ritornando a Roma, narrò ogni cosa a punto per punto al pontefice. Il quale, poi che ebbe considerato queste parole, fece ritornar il corriere indietro, scrivendo al detto Gierolomo che, sotto pena di scomunica, dovesse venir alla presenzia sua. Le quali lettere lette, esso Gierolomo s’allegrò, e più presto che puote, ne andò a Roma; e dopo il bascio del piè, il pontefice gli comandò che il giorno seguente, all’ora di consiglio, doppo il suon della tromba, subito venisse in senato. Aveva il pontefice fatto far duo vasi molto belli e di una medesima grandezza: in uno di quali pose gran numero di perle, rubini, zafiri, pietre preziose e gioie di grandissima valuta: nell’altro veramente era metallo; ed erano ambi i vasi d’uno medesimo peso. E la mattina, poi che gli sacerdoti, vescovi, presidenti, oratori e prelati furono venuti in senato, sedendo il pontefice nel suo tribunale, fatti portar nel suo conspetto i duo vasi predetti, fece venir a se Gierolomo sopradetto, e disse tai parole: Carissimi ed amatissimi figliuoli, costui sopra tutti gli altri è stato fedele cerca i comandamenti miei, e talmente si ha portato fin da’ primi anni, che non si potria dir di più; e acciò che ei conseguisca il premio del suo ben servire, e che più presto l’abbia a dolersi della sua fortuna che della mia ingratitudine, gli darò elezione di questi duo vasi, e sia l’arbitrio suo di prendere e goder quello che egli se eleggerà. Ma quello infelice e sfortunato, pensando e ripensando or l’uno or l’altro vaso, elesse per sua disgrazia quello ch’era pieno di metallo. E scoprendo l’altro vaso, veggendo esso Gierolomo il gran tesoro di gioie che teneva rinchiuso, come sono smeraldi e zafiri, diamanti, rubini, topazij e altre sorti di pietre preziose, rimase tutto attonito e mezzo morto. Il pontefice, poi che lo vidde star di mala voglia e tutto addolorato, lo esortò a confessarsi, dicendo ciò esser avenuto per suoi peccati non confessi; de’ quali fatta l’assoluzione, gli diede in penitenza che per uno anno ogni giorno dovesse a certa ora determinata venire in senato quando si trattavano gli segreti de’ re e signori a dirgli nelle orecchi un’ave Maria: nel qual luogo a niuno era lecito d’entrare. Comandò che alla venuta di lui subito li fussero aperte tutte le porte, e dato libero adito di venire a lui con tanto onore, quanto dir si potrebbe. Laonde esso Gierolomo, senza pur dir una parola, con gran onorificenzia, o più tosto con gran prosonzione, andava al pontefice, e ascendendo il seggio pontificale, faceva la penitenza a sè ingiunta. Il che fatto, tornava fuori. I circonstanti molto si maravigliavano di questa cosa, e gli oratori scrivevano a’ suoi prencipi, che Gierolomo era il pontefice e trattavasi ogni cosa in senato a volontà sua. Per il che raccoglieva di gran danari, e da’ prencipi cristiani vi erano mandati tanti e tanti doni, che in poco tempo divenne molto ricco, di modo che appena si trovava in Italia un più ricco di lui; e così passato l’anno della penitenza rimase, contento e pieno di molti doni e ricchezze. E creatolo gentil’uomo di Napoli, di Forlì e di altre molte città, essendo prima di bassa condizione, divenne chiaro e illustre a guisa di Tullo Ostilio e di David, i quali consumaron la puerizia sua in pascere le pecore, e nella età più forte l’uno resse e raddoppiò l’imperio romano, l’altro trionfò del regno de gli Ebrei.
Giunta che fu al desiato termine la favola da Isabella raccontata, levossi in piedi il Molino, e disse: Non accadeva, signora Isabella, nel principio della vostra favola far iscusazione alcuna, perciò che ella ha portato il vanto di tutte quelle che sono sta’ recitate in questa sera. A cui rispose Isabella: Signor Antonio, se io credessi voi dir da dovero, mi allegrerei sommamente; perciò che sarrei laudata da quello, che è comendato da tutti: ma perchè voi dite burlando, io me ne starò nella ignoranza mia, lasciando il vanto a queste mie sorelle, che sono più savie di me. Ma acciò che le parole più oltra non procedessino, la Signora le fece cenno che con l’enimma seguisse; ed ella allegra del datole vanto, così disse.
Tempo già fu, signor, ch’ora non è,
Nè quel che è ito, ritrattar si può,
All’or quando io non l’ebbi, te ne die’,
Ed or che l’aggio, più non te ne do.
Duro ti fia assai pensar fra te,
Chi son, chi fui: già l’ebbi, ed or non l’ho;
Ma per la strada dimandando va
Che quella te ne dia, ch’ora non l’ha.
Qui pose fine l’ingeniosa Isabella al suo enimma; e perchè era di gran misterio pieno, diversamente l’interpretaro. Ma non vi fu niuno, che pienamente l’intendesse. Il che veggendo, Isabella, con lieto e chiaro viso sorridendo, disse: Con licenzia vostra, signori, isponeremo l’enimma recitato da noi; il quale non dimostra altro, salvo che un’innamorata donna non maritata, che era sottoposta al suo amante; ma poi che si maritò, non più conobbe l’amante. Onde persuadevagli che, andando per strada, richiedesse l’amore da quelle che non avevano marito. Piacque molto a ciascaduno la dotta isposizione del sottil enimma, e tutti universalmente la comendaro. Già il crestuto gallo denunziava il chiaro giorno, quando i magnifici signori presero licenzia dalla Signora, la quale con faccia allegra li pregò che nella seguente sera al bel ridotto tornassero; e tutti farlo graziosamente risposero.
il fine della notte duodecima.