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tanto onore, quanto dir si potrebbe. Laonde esso Gierolomo, senza pur dir una parola, con gran onorificenzia, o più tosto con gran prosonzione, andava al pontefice, e ascendendo il seggio pontificale, faceva la penitenza a sè ingiunta. Il che fatto, tornava fuori. I circonstanti molto si maravigliavano di questa cosa, e gli oratori scrivevano a’ suoi prencipi, che Gierolomo era il pontefice e trattavasi ogni cosa in senato a volontà sua. Per il che raccoglieva di gran danari, e da’ prencipi cristiani vi erano mandati tanti e tanti doni, che in poco tempo divenne molto ricco, di modo che appena si trovava in Italia un più ricco di lui; e così passato l’anno della penitenza rimase, contento e pieno di molti doni e ricchezze. E creatolo gentil’uomo di Napoli, di Forlì e di altre molte città, essendo prima di bassa condizione, divenne chiaro e illustre a guisa di Tullo Ostilio e di David, i quali consumaron la puerizia sua in pascere le pecore, e nella età più forte l’uno resse e raddoppiò l’imperio romano, l’altro trionfò del regno de gli Ebrei.
Giunta che fu al desiato termine la favola da Isabella raccontata, levossi in piedi il Molino, e disse: Non accadeva, signora Isabella, nel principio della vostra favola far iscusazione alcuna, perciò che ella ha portato il vanto di tutte quelle che sono sta’ recitate in questa sera. A cui rispose Isabella: Signor Antonio, se io credessi voi dir da dovero, mi allegrerei sommamente; perciò che sarrei laudata da quello, che è comendato da tutti: ma perchè voi dite burlando, io me ne starò nella ignoranza mia, lasciando il vanto a queste mie sorelle, che sono più savie di me. Ma acciò che le parole più oltra non procedessino, la Signora le fece cenno che con l’enimma seguisse; ed ella allegra del datole vanto, così disse.