Le piacevoli notti/Notte XII/Favola IV
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FAVOLA IIII.
La maggior pazzia che possa far l’uomo o la donna, è questa, cioè aspettar di far bene dopo la morte, perciò che oggidì o poco o niente si serva la fede a’ morti; e questo noi abbiam provato, che quel poco che ne fu lasciato, non l’abbiamo mai potuto conseguire. E questo è processo per causa degli essecutori, i quali, volendo arricchire i ricchi, hanno impoverito i poveri: sì come nel discorso del mio ragionare intenderete.
Dicovi adunque che in Pesaro, città della Romagna, trovavasi un cittadino molto onorato e danaroso, ma tenace nel spendere; e constituito nell’ultimo termine della sua vita, fece il testamento ed ultima sua voluntà; per la quale instituendo i suoi figlioli, che molti ve n’aveva, eredi universali, gli impose che pagassero molti suoi legati e fideicommessi. E così morto e sepolto e pianto secondo il costume della patria, si raunarono insieme, e consigliaronsi quello si avesse fare dei legati che lasciò il padre per l’anima sua, i quali erano assai ed eccessivi; conciò sia cosa che, se mandar gli dovessero ad esecuzione, certa cosa è che inghiottivano quasi tutta l’eredità. Laonde quella sarebbe loro istata più tosto di danno, che di giovamento alcuno. Consideratosi adunque il tutto, rizzossi il minore di essi frategli, e disse queste parole: Sappiate, fratelli miei, che gli è più vero, se gli è lecito a dire che la verità, che se l’anima del padre nostro è sepolta e condannata nel profondo dell’abisso, vana cosa è pagar i legati pel riposo di lei; imperocchè non è redenzione alcuna nell’inferno, anzi a quelli che vi entrano, non è speranza di uscirne giamai. Ma se gli è ne’ floridi campi elisii, dove è perpetuo ed eterno riposo, non ha ella bisogno de legati, nè di fideicommessi. Ma se gli è nel cerchio di mezzo, dove limitatamente si purgano e’ peccati, è manifesto che, poi che saranno purgati, si scioglierà e libererassi al tutto, nè alcuna cosa le gioveranno i legati. Per il che, lasciata da canto l’anima del padre alla divina previdenza sottoposta, dividiamo la paterna eredità, e godiamola ancor noi fin che viviamo, sì come l’ha goduta il padre nostro mentre egli visse, acciò non siano di miglior condizione e’ morti che gli vivi. — Conchiudo adunque per questa mia breve novella, che debbiamo far bene mentre viviamo, e non dapoi la morte, con ciò sin che oggidì, sì come dissi nel principio del mio parlare, o poco o niente si serva la fede ai morti.
Piacque a tutti l’ingenioso consiglio dell’astuto fratello minore, ma non piacque a Vicenza, a cui la cosa toccava. Ma acciò che ella non rimanesse addolorata, con un festevole e dilettoso enimma volse por fine alla sua favola, dicendo.
Con canti vengo e presso te mi pongo;
Poi sopra il corpo tuo tutto mi stendo.
Dentro del bucco tuo metto il mio longo,
E del tuo succo con diletto prendo;
E quanto più nel fondo lo perlongo,
Tanto più mi compiaccio, e più m’incendo.
Asciutto me ne vo dentro cantando,
E torno fuor pietoso e lagrimando.
Dimostra l’enimma la fante, che la mattina per tempo, o la sera, va al pozzo per attinger acqua; perciò che nell’andare e’ secchi stridono, e giunta al pozzo sopra quello si posa, e presa la fune in mano, dentro il pozzo col secchio la pone, e con diletto tragge l’acqua: e quanto più ella manda il secchio al fondo, tanto più l’infiamma traendolo fuori, perciò che acqua più fresca ne attinge; e ponendolo nel pozzo asciutto e traendolo fuori, tace e piange. Gran spasso e diletto prese la brigata del piacevole enimma, nè si poteva contener dalle molte risa. Ma poi che fu acchetata, Isabella alla sua favola diede principio, così dicendo.