Le piacevoli notti/Notte XII/Favola II
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FAVOLA II.
Io aveva proposto nell’animo mio raccontarvi una favola d’altra materia, ma la novella recitata da questa mia sorella, mi ha fatto mutar pensiero, e voglio dimostrarvi che l’esser pazzo molte volte giova, e che niuno debbe con li pazzi comunicar i secreti.
In Pisa, famosissima città della Toscana, a’ tempi nostri abitava una bellissima donna, il cui nome per onestà passo con silenzio. Costei, che era congiunta in matrimonio con uno di molto nobil casa e molto ricco e potente, amava ardentissimamente un giovane non men bello, nè men piacevole di lei; e facevalo venire a se ogni dì cerca il mezzogiorno, e con gran riposo di animo spesso venivano alle armi di Cupidine. Di che ambiduo ne sentivano grandissima dilettazione e piacere. Avenne un giorno che un pazzo, gridando quanto più poteva, seguitava un cane che fuggendo gli portava via la carne che rubbata gli aveva; e seguitavanlo molti, sgridandolo e dandogli il stridore. Il cane, ricordevole della non pensata sua salute, e sollicito della sua vita, trovando alquanto aperto l’uscio della casa di questa donna, entrato in casa di lei, si nascose. Il pazzo, che vidde entrare il cane nella porta della detta casa, cominciò ad alta voce gridare, picchiando alla porta, e dicendo: Cacciate fuori il ladrone che quivi è nascosto, e non vogliate nascondere e’ ribaldi che son degni di morte. State fermi qui. — La donna, che aveva il drudo in casa, temendo che tanti uomini non fussero ragunati acciò che si dimostrasse il giovane e che fatto fusse palese il suo peccato, e dubitando di esser punita per l’adulterio secondo le leggi, chetamente aperse la porta e fece entrare in casa questo pazzo. E chiuso l’uscio, ingenocchiossi avanti di lui, e a guisa di supplicante pregollo di grazia che volesse tacere, offerendosi pronta e apparecchiata ad ogni suo piacere, pur che non manifestasse il giovane adultero. Il pazzo, ma però savio in questo, mandato il furor suo da banda, cominciò dolcemente abbracciarla e basciarla, e brevemente combatterono insieme la battaglia di Venere. Nè così presto furono dalla valorosa impresa disciolti, che il marito di lei giunse all’improviso, e picchiò l’uscio, e chiamò che si venga ad aprirlo. Ma quella eccellente e gloriosa moglie, da così inopinato e subito mal percossa, non sapendo in questa roina che consiglio prendersi, l’adultero da paura sbigottito e già mezzo morto, fedelmente nascose sotto il letto, e fece salire il pazzo nel camino; poi aperse l’uscio al marito, e accarezzandolo bellamente lo invitava a giacersi con esso lei. E perchè era tempo di verno, comandò il marito che si dovesse accendere il foco, chè voleva scaldarsi. Furono portate le legna per accenderlo: non però legna secche, acciò che troppo presto non s’accendesse, ma verdissime; per lo fumo delle quali si frizzevano gli occhi del pazzo, e suffocavasi di modo, che non poteva trarre il fiato, nè poteva far che sovente non stranutasse. Onde il marito, guardando per lo camino, vidde costui che quivi s’era nascosto. E pensando egli che fusse un ladro, cominciò grandemente a riprenderlo e minacciarli. A cui il pazzo: Tu ben vedi me, disse; ma quello che è sotto il letto nascosto, non vedi. Una sol volta son io stato con la moglie tua, ma egli ben mille volte ha contaminato il tuo letto. Udendo queste parole il marito, il furore fu sopra di lui; e guardando sotto il letto, trovò l’adultero e lo uccise. Il pazzo, disceso giù del camino, prese un grosso bastone e ad alta voce cominciò gridare, dicendo: Tu hai ucciso il mio debitore; per Dio, se non mi paghi il debito, ti accuserò al rettore, e farotti reo di morte. Le quai parole considerando l’omicida e vedendo non poter prevalersi del pazzo, constituito in tanto pericolo, con un sacchetto pieno di buona moneta gli chiuse la bocca. Per il che la sua pazzia guadagnò quello che perso arrebbe la sapienza.
Finita che ebbe Lodovica la sua brevissima favola, diede di piglio a uno enimma; e senza aspettar altro comandamento dalla Signora, così disse:
Cortesi donne mie, vommi a trovare
L’amico che mi dà tanto diletto.
Ed ivi giunta, tosto me ’l fo dare,
E tra una coscia e l’altra me lo metto
Quella novella poi, che rallegrare
Tutte vi face, piglio; e inanzi e indietro
Menandola, ne manda un dolce fuore,
Che languire vi fan spesso d’amore.
Le donne, inteso il dotto enimma, a più potere s’astenevano dalle molte risa; ma astrette dalla dolcezza di quello, non potevano stare che non sorridessino alquanto. Furono alcune che la rimproveravano che con isconci parlari diminueva la sua onestà. Ma ella, sentendosi pungere su l’onore, disse: Un mal disposto stomaco non getta fuori se non cose triste e cattive. Voi che avete il stomaco tutto disconcio, giudicate quello che non è l’intento mio. L’enimma adunque dimostra il violone, il quale la donna, per sonare e dar trastullo ad altrui, mette tra l’una coscia e l’altra; e preso il plettro con la destra mano, quello mena su e giù, onde ne uscisse un dolce suono, che d’amore fa tutti languire. Rimasero tutti paghi e contenti della ingeniosa interpretazione del sottile enimma, e le dierono il vanto. Ma acciò che non si perdesse tempo, la Signora comandò a Fiordiana, che una piacevole e amorosa favola cominciasse, usando però quella brevità, che le altre fin’ora usato hanno. Ed ella con voce tra’ denti non ritenuta, in tal modo disse.