Le piacevoli notti/Notte XII/Favola I
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FAVOLA I.
Più e più volte, amorevoli e graziose donne, ho udito dire, non valer scienza nè arte alcuna contrar astuzia delle donne, e questo prociede perchè elle non dalla trita e secca terra sono prodotte, ma dalla costa del padre nostro Adamo; e così sono di carne e non di terra, ancor che i loro corpi al fine in cenere si riducano. Laonde, dovendo io dar principio a’ nostri festevoli ragionamenti, determinai di raccontarvi una novella che intervenne ad un geloso; il quale quantunque savio fusse, fu nondimeno dalla moglie ingannato, e in breve tempo di pazzo, savie divenne.
In Ravenna, antiquissima città della Romagna, copiosa di uomini famosi, e massimamente in medicina, trovavasi nei passati tempi, un uomo di assai nobil famiglia, ricco ed eccellentissimo, il cui nome era Florio. Costui, essendo giovane e ben voluto da tutti, parte perchè era grazioso, parte ancora perchè era peritissimo nell’arte sua, prese per moglie una leggiadra e bellissima giovane, Doratea per nome chiamata. E per la bellezza di lei fu da tanto timore e paura assalito che altri non contaminassero il letto suo matrimoniale, che non apparea buco nè fissura alcuna in tutta la casa, che fosse molto bene con calcina otturata e chiusa, e furono poste a tutte le finestre gelosie di ferro. Appresso questo, non permetteva che alcuno, per stretto parente che gli fusse, o congiuntoli per affinità o per amicizia, entrasse nella casa sua. Il miserello sforzavasi con ogni studio e vigilanzia di rimovere tutte le cause che macchiar potessero la purità della sua moglie, e farla declinare della fede verso di lui. E avenga che, secondo le leggi civili e municipali quelli che sono carcerati per debiti, per la securità e cauzione data a’ lor creditori debbiano liberarsi, e più forte ancor, che i malefattori e delinquenti impregionati a certo spazio di tempo si disciogliono, non però a lei in perpetua sua pena era possibile uscir mai fuori di casa e da tal servitù disciolgersi; perciò che ei teneva fedeli guardiani per custodia della casa e pe’ suoi servigi, nè meno era guardiano egli degli altri, se non che aveva libero arbitrio di uscirne a suo piacere. Non però egli si partiva giamai, come provido e gelosissimo uomo, se prima non aveva diligentissimamente ricerco tutti i buchi e le fissure di casa, e serrati tutti gli usci e finestre con suoi cadenazzi con gran diligenza, e chiavati con chiavi di maraviglioso artificio: e così passava la sua vita con questa crudel pena ogni giorno. Ma quella prudentissima moglie, mossa a compassione della pazzia del marito, imperciò che ella era specchio di virtù e di pudicizia, e ad una Lucrezia romana agguagliar si poteva, deliberò sanarlo di tal pessima egritudine. Il che pensava non poterle altrimenti succedere, se con l’ingegno non dimostrasse quel che si potessero fare e operar le donne. Avenne che ella e il marito avevano pattuito insieme di andare la seguente mattina ambiduo vestiti da monaco ad un monasterio fuor della città a confessarsi. Onde, trovato il modo di aprire una finestra, vidde pe’ cancelli della ferrata gelosia che per aventura indi passava quel giovane che era ardentissimamente acceso dell’amor di lei. Chiamollo cautamente, e dissegli: Domattina per tempo andrai vestito da monaco al monasterio che è fuor della città; ed ivi aspettami fin che sotto il medesimo abito io e il mio marito venir ci vedrai. Ed all’ora, affrettandoti, tutto allegro ci verrai incontro, ed abbracceràmi e bascieràmi, e ci darai da mangiare, e goderai la insperata mia venuta; perciò che abbiamo ordinato, io e il mio marito, ambi vestiti di abito monacale, venir domattina al detto monasterio per confessarci. Sii aveduto, di buon animo e vigilante, nè ti perder di consiglio. Il che detto, si partì l’accorto giovane; e vestitosi da monaco e preparata una mensa con ogni maniera di dilicate vivande e abbondevolmente con vini gloriosissimi, andò all’antedetto monasterio; e avuta una cella da quelli reverendi padri, ivi dormì quella notte. Venuta la mattina, fece ancora apparecchiare altre dilicatezze pel desinare, oltre quelle che già portate vi aveva. Il che fatto, cominciò a passiggiare avanti la porta del monasterio; e non stette molto, che vidde la sua Dorotea, che veniva di fratesco abito coperta. A cui si fece incontro con viso giocondo e lieto, e quasi divenne meno da soverchia e inopinata allegrezza; e così diposto ogni timore, le disse: Quanto mi sia grata e gioconda la tua venuta, frate Felice amantissimo, lasciolo pensare a te, conciò sia che già gran tempo non si abbiamo veduti; e dicendo queste parole, si abbracciorono insieme, e d’imaginarie lagrimette il viso bagnandosi, si basciorono. E quelli accettando, feceli venir nella sua cella, e posegli a sedere a mensa: qual era divinamente apparecchiata, dove non mancava cosa alcuna che desiderar si potesse. Ed egli sedendo appresso alla donna, quasi ad ogni boccone dolcemente la basciava. Il geloso per la novità della cosa rimase tutto attonito e sbigottito: e da grandissimo dolor confuso, vedendo la moglie in sua presenza esser baciata dal monaco, non poteva inghiottire il boccone che tolse, quantunque picciolo, nè mandarlo fuori. In questa dilettazione e piacere consummarono tutto il giorno. Approssimandosi la sera, il geloso addimandò licenza, dicendo che molto erano stati fuori del monasterio, e che forza era ritornarci. Finalmente non senza difficultà ottenutala, doppo molti abbracciamenti e saporiti basci, con gran dolore si partirono. Poi che furono ritornati a casa, avedutosi il marito che egli era stato la cagione di tutto questo male, ed esser cosa superflua e frustratoria voler resistere a gli sottili inganni delle donne, già quasi vinto e superato da lei, aperse le finestre e gli serragli per lui fatti, di maniera che non era casa nella città più sfinestrata di quella, e disciolse tutti i legami, lasciando la moglie in libertà, e dipose ogni paura; e risanato di tanta e sì grave infermità, pacificamente con la moglie visse: ed ella, liberata dalla dura prigione, lealmente servò la fede al marito.
Già aveva posto fine la graziosa Lionora alla sua dilettevole favola, da tutti non a bastanza comendata, quando la Signora l’impose che con l’arguto enimma l’ordine seguitasse; ed ella, non aspettando altro comandamento, allegramente così disse:
Star vidi una mattina scapigliata
In terra a gambe aperte una sedendo;
Ed una cosa d’assai larga entrata
E cava tra le coscie ritraendo,
Godeva, e un’altra a piena man pigliata.
Bianca, grossa e rotonda, entro mettendo.
Tanto la dimenava e ben premeva,
Ch’un liquor dolce uscir fuor li faceva.
Questo enimma diede da mormorare agli uomini, e per le molte risa che facevano, le donne poneano il capo in grembo; non però fu alcuno che l’intendesse. Onde la baldanzosa Lionora in tal modo l’espose: Era una villanella che con le treccie sciolte sedeva in terra: e avendo le gambe aperte, tra quelle teneva il mortaio, e con una mano il pestello; e tanto con quello premea le erbe che vi erano dentro, che n’usciva un sugo, col quale ella faceva la salsa. Laudevole fu la dichiarazione del non più inteso enimma, e tutti ad una voce sommamente il comendorono. E poscia che riso ebbero alquanto, la Signora comandò a Lodovica, che alla sua favola desse principio. La quale, non ritrosa ma mansueta, in tal guisa a dire incominciò.