Le piacevoli notti/Notte X/Favola III
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FAVOLA III.
Rivogliendo l’antiche e moderne istorie, trovo la prudenza esser una delle più chiare e notabili virtù, che nelle umane creature trovar si possa; perciò che l’uomo prudente si rammenta le cose passate, discerne le presenti e con maturo giudizio provede alle future. Dovendo adunque io questa sera favoleggiare, la favola di Arianna mi ha ridotto a memoria una novelluzza, la quale, avenga che ridicolosa non sia nè lunga, sarà nondimeno dilettevole e di non picciolo frutto.
Fu, non è gran tempo, una povera donnicuolla che aveva un figliuolo chiamato Cesarino di Berni di Calavria, giovane veramente discreto, e vie più di beni della natura, che della fortuna dotato. Partitosi un giorno Cesarino di casa e andatosene alla campagna, capitò ad un folto e ben fronzuto bosco; e invaghito del verdeggiante luogo, entrò dentro: e per avventura trovò una pietrosa tana, dove eran leoncini, orsattini e lupini, di quali d’ogni sorte ne prese; e condottigli a casa, con sommo studio e diligenza unitamente li nudrì: ed erano sì maestrevolmente uniti, che un non poteva star senza l’altro, ed erano così domestici con le persone, che niuno offendeano. Essendo gli animali di natura feroci, e per accidente domestici cresciuti, e avendo già prese le lor vive forze, Cesarino con essi loro sovente se n’andava alla caccia, e sempre carico di silvestri fiere lietamente a casa ritornava, e con quelle la madre e se stesso nodriva. Vedendo la madre la preda grande che ’l figliuolo faceva, molto si maravigliò, e addimandollo, come ogni giorno prendesse tante fiere. Egli rispose: Con gli animali che avete veduti; ma ben vi prego che questo ad alcuno non rivelate, acciò non rimanga di quelli privo. Non passarono molti giorni, che la madre si trovò con una sua vicina, alla quale molto amore portava, sì perchè ella era donna da bene, sì anco perchè era serviciale e amorevole; e ragionando insieme di più cose, disse la vicina: Comare, come fa il figliuolo vostro a prender tante fiere? E la vecchiarella le manifestò il tutto; e tolta licenza, ritornò a casa. Appena che partita s’era la buona vecchia dalla comare, che giunse il marito a casa; e fattasevi in contra con lieto viso, gli raccontò il tutto. Il marito, udendo questo, incontenenti andò a trovare Cesarino, e dissegli: Figliuoccio mio, a questo modo vai tu alla caccia, nè mai chiamaresti un compagno teco? Questo non conviene all’amorevolezza ch’è tra noi. Cesarino sorrise, nè volse darli risposta; ma senza prender congiato dalla vecchia madre e dalle dilette sorelle, con gli tre animali si partì, e alla buona ventura se n’andò. E dopo lungo camino aggiunse ad uno solitario e inabitato luogo della Sicilia, dove era un eremitorio: e andatosene ivi, entrò, e non vedendo alcuno, con gli suoi animali si mise a posare. Non stette molto, che l’eremita tornò a casa; ed entrato dentro, vidde quelli animali, e smarrito, volse fuggire. Ma Cesarino, che de l’eremita s’aveva già aveduto, disse: Padre, non temete, ma entrate sicuramente nella cella, perciò che questi animali sono sì domestici, che non vi oltreggieranno in modo alcuno. Assicurossi l’eremita per le parole di Cesarino, ed entrò nella sua povera cella. Era Cesarino molto affannato per lo lungo camino che fatto aveva: e voltatosi verso l’eremita, disse: Padre, arreste voi per avventura un poco di pane e di vino, acciò ch’io potesse riavere le perdute forze? Sì bene, figliuol mio, rispose lo eremita, ma non di quella bontà, che forse tu vorresti. E scorticate e smembrate le fiere che prese aveva, le pose in un schidone e l’arrostì; ed apparecchiata la mensa, e ingombrata di quelle povere vivande che s’attrovava, cenarono allegramente insieme. Cenato che ebbero, disse l’eremita a Cesarino: Non molto lungi di qua alberga un dracone, il cui anelito ammorba e avelena ogni cosa, nè è persona, che li possa resistere; ed è di tanta roina, che farà bisogno che i paesani tosto abbandonino il paese. Appresso questo fa mestieri ogni giorno mandargli un corpo umano per suo cibo: altrimenti distruggerebbe il tutto; e per empia e mala fortuna dimani tocca la sorte alla figliuola del re, la quale e di bellezza e di virtù e di costumi avanza ogni altra donzella, nè è cosa in lei, che non sia d’ogni laude degna: e veramente è grandissimo peccato che una tanta donzella senza lei colpa sì crudelmente perisca. Inteso ch’ebbe Cesarino il parlar dell’eremita, disse: State di buon animo, padre mio santo, nè dubitate punto, che vedrete della punzella la liberazione presto. Nè appena era spuntata fuori l’aurora della mattina, che Cesarino andò là dove dimorava il minaccioso dracone, e seco condusse i tre animali, e vidde la figliuola del re, che già era venuta per esser divorata. Onde appressatosi a lei che dirottamente piangeva, la confortò, e disse: Non piangete, donna, nè più vi rammaricate, perciò che io sono qui aggiunto per liberarvi. E così dicendo, ecco con gran empito uscir fuori l’insaziabil dracone; e con la bocca aperta cercava di lacerare e divorare la vaga e delicata giovane, la quale per paura tutta tremava. Allora Cesarino, da pietà commosso, s’inanimò, e spinse li tre animali contra l’affamata e ingorda belva; e tanto combatterono, che finalmente l’atterrarono e uccisero. Indi Cesarino col coltello, che nudo in mano teneva, gli spiccò la lingua, e postala in uno sacco, la riservò con molta diligenza; e senza dir parola alla liberata giovane, si riparti ed all’eremo ritornò, raccontando al padre tutto quello aveva operato. L’eremita, intendendo il drago esser morto, e la giovane e il paese liberato, assai se n’allegrò. Avenne che un contadino rozzo e materiale, valicando per quel luogo dove l’orribil fiera morta giaceva, vide il pauroso e fiero mostro; e messo mano ad un suo coltellone, che a lato teneva, gli spiccò il capo dal busto: e postolo in un saccone che seco aveva, caminò verso la città. E caminando di buon passo, aggiunse la donzella che al padre ritornava, e con lei s’accompagnò; e giunto al real palazzo, l’appresentò al padre, il qual, veduta la ritornata figliuola, quasi da soverchia letizia se ne morì. Il contadino tutto allegro, trattosi il cappello che in capo aveva, disse al re: Signore, la figliuola vostra a me tocca per moglie, però che la campai dalla morte; e in segno della verità trasse dal saccone l’orribil teschio dell’uccisa fiera, e appresentollo al re. Il re, considerando il teschio dell’altero e non più veduto mostro e compresa la liberazione della figliuola e del paese, ordinò un onorato trionfo e una superba festa, alla quale furono invitate tutte le donne della città; le quali, pomposamente vestite, vennero a congratularsi con la liberata figliuola. Avenne che l’eremita, in quell’ora che si preparavano le feste e’ trionfi, era nella città; e già intonavagli nell’orecchi un villano aver ucciso il dracone, ed in premio della liberazione della figliuola del Re, deverla aver per moglie. Il che l’eremita udiva non senza grandissimo dolore; e lasciato da canto in quel giorno il mendicare, ritornò a l’eremitorio, raccontando la cosa a Cesarino, come passava. Il quale, intesala, assai si dolse; e presa la lingua dell’ucciso dracone, li fece aperta fede lui esser stato quello che la fiera uccisa aveva. Il che intendendo l’eremita e apertamente conoscendo lui esser stato l’uccisore, al re se n’andò; e trattosi il povero cappuccio di capo, così gli disse: Sacratissimo Re, egli è cosa detestabile molto, che un malvaggio e reo uomo, consueto ad abitare nelle spelunche, divenga marito di colei ch’è fior di liggiadria, norma di costumi, specchio di gentilezza e dotata d’ogni virtù: e tanto più, che egli cerca ingannare vostra maestà, affermandole esser vero quello di che egli per la gola si mente. Io, desideroso dell’onor di vostra maestà e dell’utile della figliuola vostra, sono qui venuto per discoprirle, colui che si vanta aver liberata la figliuola, non esser quello che uccise il dracone. E però, sacratissimo Re, aprite gli occhi, non tenete chiuse l’orecchie, ascoltate chi di buon cuor vi ama. Il Re, udito che ebbe l’eremita che saldamente parlava, e conoscendo le lui parole scaturire da fidelissimo e intiero amore, gli prestò inviolabil fede; e fatte cessare le feste e i triunfi, comandò all’eremita che palesasse colui che era stato il vero liberatore della figliuola. L’eremita, che altro non desiderava, disse: Signore, non fa mestieri che io vi dica il nome suo; ma quando fosse in piacere di vostra maestà, io il menerei qua dinanzi della presenzia vostra, ed ella vederebbe un giovane di corpo bello, leggiadro, riguardevole, e ad amare tutto inchinato: i cui reali e onesti costumi avanzano ogni altro che io conoscesse mai. Il Re, già invaghito del giovane, comandò che subito fusse condotto. L’eremita, partito dal Re, ritornò al suo tugurietto, e narrò a Cesarino il tutto. Il quale, presa la lingua e postala in una bisciaccia, con gli animali e con l’eremita al Re se ne andò; e appresentatosi, e postosi in ginocchioni, disse: Sacra maestà, la fatica e il sudor fu mio, ma l’onor d’altrui. Io con questi miei animali, per la liberazione della figliuola vostra, uccisi la fiera. Disse il Re: E che fede me ne darai tu d’averla uccisa? conciosiacosache costui mi ha appresentato il teschio, che ivi sospeso vedi. Rispose Cesarino: Non voglio il detto della figliuola vostra, che sarebbe in questo testimonio bastevole; ma un sol segno vi voglio dare, che denegare non si potrà che io non sia stato l’uccisore. Fate guardare, disse Cesarino, nel teschio, che il troverete senza lingua. Il Re fecesi recar il teschio, e ritrovollo senza lingua. Allora Cesarino, messa la mano alla bisciaccia, cavò fuori la lingua del dracone, che era di estrema grandezza, nè mai per lo addietro fu la maggior veduta; e apertamente dimostrò lui esser stato l’uccisore della crudel fiera. Il Re, per lo detto della figliuola e per la dimostrata lingua, e per gli altri indizij avuti, fece prendere il contadino, e in quell’instante li fece troncare il capo dal busto; e con trionfo e festa furono con Cesarino celebrate le nozze, e consumarono il matrimonio. La madre e le sorelle di Cesarino, sentita la nova che egli era stato l’uccisor della fiera e liberator della puncella, e già averla in guidardone per moglie, deliberarono d’andar in Sicilia; e ascese in una nave, con prosperevol vento giunsero nel regno, dove con grande onore furono ricevute. Non stettero gran tempo queste donne nel regno, che si mosseno a tanta invidia contra Cesarino, che l’averebbono divorato. E crescendo di giorno in giorno l’odio maggiore, determinorono di darli celatamente la morte. E ravogliendo nel loro animo più cose, al fine s’imaginorono di prender un osso, e farlo acuto, e venenar la punta, e ponerlo tra le linzuola e ’l letto con la punta in sù, acciò che Cesarino, andando a posare e gittandosi giù nel letto, come i giovani fanno, si pungesse e avenenasse; e senza indugio essequirono il malvaggio consiglio. Venuta l’ora di andar a dormire, Cesarino con la moglie andò in camera; e posti giù li drappi di dosso e la camiscia, gittossi sopra ’l letto, e diede del sinistro fianco sopra la punta de l’osso; e fu sì acerba la ferita, che per lo veneno subito s’enfiò, e andato il veneno al core, se ne morì. La donna, veggendo il suo manto morto, incominciò altamente gridare e dirottamente piagnere; al cui strepito corsero i corteggiani, e trovorono Cesarino di questa vita partito; e volgendolo e ravolgendolo, lo trovorono tutto enfio, e nero come corbo; onde giudicarono che da veneno fosse stato estinto. Il che intendendo, il Re fece grandissima inquisizione; e nulla di certezza potendo avere, restò, e vestitosi di abito lugubre con la figliuola e la corte, ordinò che al corpo morto si desse solenne e pomposa sepoltura. Mentre si preparavano le grandi e orrevoli essequie, la madre e le sorelle di Cesarino cominciorono fortemente a temere che ’l leone, l’orso e il lupo non le scoprisseno, udendo il suo patrone morto; e fatto consiglio tra loro, pensorono d’impiombargli l’orecchi; e si come s’imaginorono, così fecero. Ma al lupo non furono così ben impiombate l’orecchie; perciò che alquanto udiva da una orecchia. Essendo portato il corpo morto alla sepoltura, disse il lupo al leone e all’orso: Compagni parmi sentire una mala nuova: — ma elli che impiombate aveano le orecchie, nulla sentivano: e reiterate ancor le dette parole, meno udivano. Ma il lupo con cenni e motti tanto fece, che pur compresero non so che di morte. Laonde l’orso con le indurate unghie e curve, tanto penetrò nelle orecchie del leone, che gli estrasse il piombo; e parimenti fece il leone all’orso e al lupo. Essendo adunque a ciascun di loro tornato l’udito, disse il lupo alli compagni: Parmi aver sentito ragionamento della morte del signor nostro. E non venendo il signor, secondo il costume suo, a visitarli e dargli il cibo, tennerono per certo lui esser morto. E usciti di casa tutta tre, corsero là dove i becchini portavano il corpo morto. I chierici e l’altre persone che accompagnavano il corpo morto alla sepoltura, veduti gli animali, si misero a fuggire; e quelli che portavano la bara, la misero giù, e si dierono parimenti alla fuga; altri di più coraggio volsero vedere il fine. I tre animali con denti e con unghie tanto fecero, che spogliarono al suo signore le vestimenta, e volgendolo da ogni parte, trovarono la piaga. All’ora disse il leone all’orso: Fratel mio, or fa dibisogno d’un poco di grasso delle budella tue; perciò che, tantosto che unta sarà la piaga, il signor nostro risusciterà. Rispose l’orso: non fa mestiero dir altre parole; io aprirò la bocca a più mio potere, e tu porrai la zampa dentro, e trarrai del grasso a tuo piacere. Il leone pose la zampa dentro della gola dell’orso, che si ristringeva acciò che più in giù la potesse ficcare, e cavolli il grasso che facea bisogno, e con quello unse d’ogni intorno la piaga del signore. Ed essendo ben mollificata, la succhiava con la bocca; indi tolse certa erba e cacciolla nella piaga, e tanta fu la sua virtù, che subito andò al core, e quello sommamente allegrò. Laonde il signor a poco a poco cominciò aver le forze: e di morto, vivo rivenne. Il che vedendo quelli che vi erano presenti, restorono stupefatti; e subito corsero al Re, e gli dissero, Cesarino vivere. Inteso questo, il Re e la figliuola, che Doratea si chiamava, vi andorono in contra, e con insperata letizia l’abbraciorono, e con gran festa al regal palazzo lo condussero. Venne la nuova alla madre e alle sorelle di Cesarino, come era risuscitato. Il che molto le dispiacque: ma pur fingendo d’aver allegrezza, andorono al palazzo; e giunte al conspetto di Cesarino, la piaga gettò gran quantità di sangue. Di che elle si smarrirono, e pallide divennero. Il che veggendo, il Re ebbe non poco sospetto contra loro; e fattele ritenere e mettere alla tortura, confessorono il tutto. Il Re senza indugio le fece vive ardere, e Cesarino e Doratea a lungo tempo felicemente si goderono insieme, e lasciorono dopo sè figliuoli; e gli animali, finchè da natural morte morirono, furono con molta diligenza serviti.
Dopo che Alteria mise fine alla sua favola, senz’altro comandamento aspettare, l’enimma in tal maniera raccontò, dicendo:
Nome ho di donna, ed ho meco un fratello,
Qual morto, io nasco, e morta io, rinasce esso.
Nè mai mi posso accompagnar con ello,
Che tosto fugge, che gli giungo addosso.
Partomi, e torno, e volo più che augello.
Ne ad alcun mai toccarmi fu permesso.
E vosco spesso mi ritrovo a cena.
Quantunque mora, e nasca senza pena.
Di gran sostanzia e ingenioso fu l’enimma d’Alteria recitato; nè alcun si puote dar vanto d’intenderlo, eccetto colei che recitato l’avea. La quale, vedendo tutti stupefatti rimanere, disse: Il mio enimma, signori, altro non denota, se non la notte; la quale ha nome di donna, e ha un fratello, che è il giorno: e morto il giorno, nasce la notte, e morta la notte, rinasce il giorno, nè mai si può col giorno accompagnare; e vola come uccello, nè si lascia toccare, e spesso cena con esso noi. Piacque ad ogni uno la bella interpretazione del sottil enimma, e quella dottissima tutti riputaro; ed acciò che la notte non trapassasse e venisse il giorno, la Signora ordinò ad Eritrea che con una sua favola seguisse; la qual così a dire allegramente incominciò.