alla quale furono invitate tutte le donne della città; le quali, pomposamente vestite, vennero a congratularsi con la liberata figliuola. Avenne che l’eremita, in quell’ora che si preparavano le feste e’ trionfi, era nella città; e già intonavagli nell’orecchi un villano aver ucciso il dracone, ed in premio della liberazione della figliuola del Re, deverla aver per moglie. Il che l’eremita udiva non senza grandissimo dolore; e lasciato da canto in quel giorno il mendicare, ritornò a l’eremitorio, raccontando la cosa a Cesarino, come passava. Il quale, intesala, assai si dolse; e presa la lingua dell’ucciso dracone, li fece aperta fede lui esser stato quello che la fiera uccisa aveva. Il che intendendo l’eremita e apertamente conoscendo lui esser stato l’uccisore, al re se n’andò; e trattosi il povero cappuccio di capo, così gli disse: Sacratissimo Re, egli è cosa detestabile molto, che un malvaggio e reo uomo, consueto ad abitare nelle spelunche, divenga marito di colei ch’è fior di liggiadria, norma di costumi, specchio di gentilezza e dotata d’ogni virtù: e tanto più, che egli cerca ingannare vostra maestà, affermandole esser vero quello di che egli per la gola si mente. Io, desideroso dell’onor di vostra maestà e dell’utile della figliuola vostra, sono qui venuto per discoprirle, colui che si vanta aver liberata la figliuola, non esser quello che uccise il dracone. E però, sacratissimo Re, aprite gli occhi, non tenete chiuse l’orecchie, ascoltate chi di buon cuor vi ama. Il Re, udito che ebbe l’eremita che saldamente parlava, e conoscendo le lui parole scaturire da fidelissimo e intiero amore, gli prestò inviolabil fede; e fatte cessare le feste e i triunfi, comandò all’eremita che palesasse colui che era stato il vero liberatore della figliuola. L’eremita, che altro non desiderava, disse: Signore, non fa mestieri che io