Le piacevoli notti/Notte V/Favola II
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FAVOLA II.
Sì potente, sì alto e sì acuto è l’intelletto de l’uomo, che senza dubbio supera e avanza tutte l’umane forze del mondo. E però meritamente dicesi l’uomo savio signoreggiare le stelle. Laonde mi soviene una favola, per la quale agevolmente intenderete, come una povera fanciulletta, dalla fortuna sovvenuta, d’uno ricco e potente Re moglie divenne. E quantunque la favola breve sia, sarà però, se non m’inganno, tanto più piacevole e ridicolosa. Prestatemi adunque l’orecchie vostre attente ad ascoltarmi, sì come per lo adietro fatto avete a queste nostre onestissime compagne, le quali si hanno più tosto da sommamente lodare, che in niuna parte biasmar di voi.
In Boemia, piacevoli donne, non è gran tempo che si trovò una vecchiarella, Bagolana Savonese per nome chiamata. Costei, essendo poverella ed avendo due figliuole, l’una de’ quai Cassandra, l’altra Adamantina si addimandava, volse di quella poca povertà, che ella si trovava avere, ordinare i fatti suoi e contenta morire. E non avendo in casa nè fuori cosa alcuna di cui testare potesse, eccetto che una cassettina piena di stoppa, fece testamento; e la cassettina con la stoppa lasciò alle figliuole, pregandole che dopo la morte sua pacificamente insieme vivessero. Le due sorelle, quantunque fussino povere de’ beni della fortuna, nondimeno erano ricche de’ beni dell’animo, ed in costumi non erano inferiori all’altre donne. Morta adunque la vecchiarella, e parimente sepolta, Cassandra, la qual era la sorella maggiore, prese una libra di quella stoppa, e con molta sollecitudine si puose a filare; e filata che fu, diede il filo ad Adamantina sua sorella minore, imponendole che lo portasse in piazza e lo vendesse, e del tratto di quello comprasse tanto pane: acciò che ambedue potessero delle sue fatiche la loro vita sostentare. Adamantina, tolto il filo e postolo sotto le braccia, se n’andò in piazza per venderlo secondo il comandamento di Cassandra; ma venuta la cagione e la opportunità, fece il contrario di quello era il voler suo e della sorella: perciò che s’abbattè in piazza in una vecchiarella che aveva in grembo una poavola, la più bella e la più ben formata che mai per l’adietro veduta si avesse. Laonde Adamantina, avendola veduta e considerata, di lei tanto se n’invaghì, che più di averla, che di vendere il filo pensava. Considerando adunque Adamantina sopra di ciò, e non sapendo che fare nè che dire per averla, pur deliberò di tentare sua fortuna, si a baratto la potesse avere. Ed accostatasi alla vecchia, disse: Madre mia, quando vi fusse in piacere, io baratterei volontieri con la poavola vostra il filo mio. La vecchiarella, vedendo la fanciulla bella, piacevole e tanto desiderosa della poavola, non volse contradirle; ma preso il filo, la poavola le appresentò. Adamantina, avuta la poavola, non si vide mai la più contenta; e tutta lieta e gioconda a casa se ne tornò. A cui la sorella Cassandra disse: Hai tu venduto il filo? — Sì, rispose Adamantina. — E dov’è il pane che hai comperato? disse Cassandra. A cui Adamantina, aperto il grembiale di bucato che dinanzi teneva sempre, dimostrò la poavola che barattata aveva. Cassandra, che di fame si sentiva morire, veduta la poavola, di sì fatta ira e sdegno s’accese, che, presa Adamantina per le treccie, le diede tante busse, che appena la meschina si poteva movere. Adamantina, pazientemente ricevute le busse, senza far difesa alcuna, meglio che seppe e puote con la sua poavola in una camera se n’andò. Venuta la sera, Adamantina, come le fanciullette fanno, tolse la poavola in braccio, ed andossene al fuoco; e preso de l’oglio della lucerna, le unse lo stomaco e le rene: indi, rivoltata in certi stracci che ella aveva, in letto la mise, ed indi a poco, andatasene a letto, appreso la poavola si coricò. Nè appena Adamantina aveva fatto il primo sonno, che la poavola cominciò chiamare! Mamma, mamma, caca. E Adamantina destata, disse! Che hai, figliuola mia? A cui rispose la poavola: Io vorrei far caca, mamma mia. Ed Adamantina: Aspetta, figliuola mia, disse. E levatasi di letto, prese il grembiale, che ’l giorno dinanzi portava, e glielo pose sotto dicendo: Fa caca, figliuola; e la poavola, tuttavia premendo, empì il grembiale di gran quantità di danari. Il che vedendo, Adamantina destò la sorella Cassandra, e le mostrò i danari che aveva cacati la poavola. Cassandra, vedendo il gran numero de’ danari, stupefatta rimase: Iddio ringraziando che per sua bontà nelle lor miserie abbandonate non aveva; e voltatasi alla sorella, le chiese perdono delle busse che da lei a gran torto ricevute aveva: e fece molte carezze alla poavola, dolcemente basciandola e nelle braccia strettamente tenendola. Venuto il chiaro giorno, le sorelle fornirono la casa di pane, di vino, di oglio, di legna, e di tutte quelle cose che appartengono ad una ben accomodata famiglia. Ed ogni sera ungevano lo stomaco e le rene alla poavola, ed in sottilissimi pannicelli la rivoglievano, e sovente se la voleva far caca le dimandavano. Ed ella rispondeva, che sì; e molti danari cacava. Avenne che una sua vicina, essendo andata in casa delle due sorelle, ed avendo veduta la loro casa in ordine di ciò che le faceva mestieri, molto si maravigliò; nè si poteva persuadere che sì tosto fussero venute sì ricche, essendo già state sì poverissime, e tanto più conoscendole di buona vita e sì oneste del corpo loro, che opposizione alcuna non pativano. Laonde la vicina, dimorando in tal pensiero, determinò di operare sì che la potesse intendere dove procedesse la causa di cotanta grandezza. E andatasene alla casa delle due sorelle, disse: Figliuole mie, come avete fatto voi a fornire sì pienamente la casa vostra, conciosiacosachè per lo adietro voi eravate sì poverelle? A cui Cassandra, che era la maggior sorella, rispose: Una libra di filo di stoppa con una poavola barattata abbiamo, la quale senza misura alcuna danari ci rende. Il che la vicina intendendo, nell’animo fieramente si turbò; e tanta invidia le crebbe, che di furargliela al tutto determinò. E ritornata a casa, raccontò al marito come le due sorelle avevano una poavola, che dì e notte le dava molto oro ed argento, e che al tutto di involargliela determinato aveva. E quantunque il marito si facesse beffe delle parole della moglie, pure ella seppe tanto dire, ch’egli le credette. Ma dissele: E come farai tu a involargliela? A cui la moglie rispose: Tu fingerai una sera d’esser ebbriaco e prenderai la tua spada, e correrammi dietro per uccidermi percotendo la spada nelle mura: ed io, fingendo d’aver di ciò paura, fuggirò su la strada: ed elle, che sono compassionevoli molto, mi apriranno: ed io chiuderommi dentro la loro casa, e resterò presso loro quella notte, ed io opererò quanto che io potrò. Venuta adunque la sequente sera, il marito della buona femina prese la sua arrugginita spada, e percotendo quando in questo muro quando in quell’altro, corse dietro alla moglie: la quale, piangendo e gridando ad alta voce, fuggì fuor di casa. Il che udendo, le due sorelle corsero alle finestre per intender quello che era avenuto, e cognobbero la voce della loro vicina, la quale molto forte gridava; e le due sorelle, abbandonate le finestre, scesero giù a l’uscio: ed apertolo, la tirorono in casa. E la buona femina, dimandata da loro per che cagione il marito così irato la seguiva, le rispose: Egli è venuto a casa sì imbalordito dal vino, che non sa ciò che si faccia; e perchè io lo riprendeva di queste sue ebbrezze, egli prese la spada, e corsemi dietro per uccidermi. Ma io, più gagliarda di lui, ho voluto fuggire per minor scandalo, e sonomi quì venuta. Disse e l’una e l’altra sorella: Voi, madre mia, avete fatto bene; e starete questa notte con esse noi, acciò non incorriate in alcuno pericolo della vita: e in questo mezzo il marito vostro padirà l’ebbrezza sua. Ed apparecchiata la cena, cenarono insieme; e poscia unsero la poavola, e se n’andorono a riposare. Venuta l’ora che la poavola di cacare bisogno aveva, disse: Mamma, caca! E Adamantina, secondo l’usanza, le poneva sotto il pannicello mondo, e la poavola cacava danari con grandissima maraviglia di tutte. La buona femina che era fuggita, il tutto vedeva, e molto suspesa restava; e parevale un’ora mille anni di furarla e di poter operare tal effetto. Venuta l’aurora, la buona femina, dormendo ancora le sorelle, chetamente si levò di letto; e senza che Adamantina se ne avedesse, le furò la poavola che vi era appresso: e destatele, tolse licenza di andar a casa, dicendole che la pensava che oramai il marito poteva aver digesto il vino sconciamente bevuto. Andatasene a casa, la buona donna disse lietamente al marito: Marito mio, ora noi abbiamo trovata la ventura nostra: vedi la poavola; — ed un’ora mille anni le pareva che venisse notte per farsi ricca. Sopragiunta la buia notte, la donna prese la poavola; e fatto un buon fuogo, le unse lo stomaco e le rene: ed infasciata in bianchi pannicelli, nel letto la pose, e spogliatasi ancora ella, appresso la poavola si coricò. Fatto il primo sonno, la poavola si destò, e disse! Madonna, caca! — e non disse: Mamma, caca! — perciò che non la conosceva; e la buona donna, che vigilante stava aspettando il frutto che seguirne doveva, levatasi di letto, e preso un panno di lino bianchissimo, glie lo puose sotto, dicendo: Caca, figliuola mia, caca! La poavola, fortemente premendo, invece di danari, empì il panno di tanta puzzolente feccia, che appena se le poteva avicinare. Allora disse il marito: Vedi, o pazza che tu sei, come ella ti ha ben trattata; e sciocco sono stato io a crederti tale pazzia. Ma la moglie, contrastando col marito, con giuramento affermava, sè aver veduto con gli occhi propi gran somma di danari per lei cacata. E volendo la moglie riservarsi alla notte seguente a far nuova isperienza, il marito, che non poteva col naso sofferire il tanto puzzore che egli sentiva, disse la maggior villania alla moglie, che mai si dicesse a rea femina del mondo; e presa la poavola, la gittò fuori della finestra sopra alcune scopazze che erano a rimpetto della casa loro. Avenne che le scopazze furono caricate da alcuni contadini lavoratori di terre sopra di un carro; e senza che alcuno se n’avedesse, fu altresì messa la poavola sul carro: e di quelle scopazze fatto fu alla campagna un lettamaro da ingrassare a suo luogo e tempo il terreno. Occorse che Drusiano Re, andando un giorno per suo diporto alla caccia, gli venne una grandissima volontà di scaricare il soperchio peso del ventre; e smontato giù del cavallo, fece ciò che naturalmente gli bisognava. E non avendo con che nettarsi, chiamò un servente che gli desse alcuna cosa, con la quale si potesse mondare. Il servente, andatosene al lettamaro, e ricercando per dentro se poteva trovar cosa che al proposito fusse, trovò per aventura la poavola; e presala in mano, la portò al Re. Il quale senz’alcun sospetto tolse la poavola; e postasela dietro alle natiche per nettare messer lo perdoneme, trasse ’l maggior grido che mai si sentisse. Imperciocchè la poavola con i diti gli aveva presa una natica; e sì strettamente la teneva, che gridare ad alta voce lo faceva. Sentito da’ suoi il smisurato grido, subito tutti corsero al Re; e vedutolo che in terra come morto giaceva, tutti stupefatti restarono: e vedendolo tormentare dalla poavola, si posero unitamente per levargliela dalle natiche; ma si affaticavano in vano, e quanto più si sforzavano di rimovergliela, tanto ella gli dava maggior passione e tormento: nè fu mai veruno che pur crollare la potesse, non che indi ritrarla. Ed alle volte con le mani gli apprendeva i sonagli, e sì fatta stretta gli dava, che gli faceva veder quante stelle erano in cielo a mezzo il giorno. Ritornato l’affannato Re al suo palazzo con la poavola alle natiche taccata, e non trovando modo nè via di poterla rimovere, fece fare un bando: che s’alcuno, di qual condizione e grado essere si voglia, si trovasse, a cui bastasse l’animo la poavola dalle natiche spiccargli, che gli darebbe il terzo del suo regno; e se poncella fusse, qual si volesse, per sua cara e diletta moglie l’apprenderebbe: promettendo sopra la sua testa di osservare tanto quanto nel bando si conteneva. Intesosi adunque il bando, molti concorsero al palazzo con viva speranza di ottenere lo constituto premio. Ma la grazia non fu concessa ad alcuno che traere gli la potesse: anzi, come alcuno se gli avicinava, ella gli dava più noia e passione. Ed essendo il travagliato Re sì fieramente tormentato, nè trovando rimedio alcuno al suo incomprehensibile dolore, quasi come morto giaceva. Cassandra ed Adamantina, che grandissime lagrime sparse avevano per la loro perduta poavola, avendo inteso il publicato bando, vennero al palazzo, ed al Re s’appresentorono. Cassandra, che era la sorella maggiore, comenciò far festa alla poavola e li maggior vezzi che mai far si potesse. Ma la poavola, stringendo i denti e chiudendo le mani, maggiormente tormentava il sconsolato Re. Adamantina, che alquanto stava discosta, si fece avanti; e disse: Sacra Maestà, lasciate che ancora io tenti la ventura mia; ed appresentatasi alla poavola, disse: Deh, figliuola mia, lascia omai cheto il mio Signore, nè gli dar più tormento; — e presala per i pannicelli, accarezzala molto. La poavola, che conosciuta aveva la sua mamma, la quale era solita a governarla e maneggiarla, subito dalle natiche si staccò; ed abbandonato il Re, saltolle nelle braccia. Il che vedendo, il Re tutto attonito e sbigottito rimase, e si puose a riposare; perciò che molte e molte notti e giorni dalla passione grande, che egli sentita e provata aveva, mai non aveva potuto trovar riposo. Ristaurato Drusiano Re dallo intenso dolore, e delle gran morse risanato, per non mancare della promessa fede, fece venire a se Adamantina; e vedendola vaga e bella giovanetta, in presenza di tutto il popolo la sposò: e parimenti Cassandra, sua sorella maggiore, onorevolmente maritò; e fatte solenni e pompose feste e trionfi, tutti in allegrezza e tranquilla pace lungo tempo vissero. La poavola, vedute le superbe nozze dell’una e l’altra sorella, ed il tutto aver sortito salutifero fine, subito disparve. E che di lei n’avenisse, mai non si seppe novella alcuna. Ma giudico io che si disfantasse, come nelle fantasme sempre avenir suole.
La favola di Alteria, essendo già venuta a fine, molto piacque a tutti: nè si potevano dalle risa astenere, e massimamente quando pensavano che la poavola dolcemente cacava, e con i denti le natiche e con le mani gli sonagli del Re strettamente teneva. Ma poscia che cessarono le risa, la Signora ad Alteria impose che con l’enimma l’ordine seguisse. Ed ella lietamente così incominciò.
Per lunghezza una spanna ed un sommesso,
E parimente alla grandezza grosso,
Sta un sempre ardito, e si vagheggia spesso,
E volentieri all’uom si getta addosso.
Molt’è da veder vago per se stesso,
E porta brache e scapuzzetto rosso;
Con duo sonagli che gli pende a basso,
A cui gli piace, dà diletto e spasso.
Finito il leggiadro e forte enimma, la Signora, che aveva già cangiato le risa in sdegno e mostravasi adirata, fece una riprensione ad Alteria: dicendo che qua non era luogo da raccontare tra onestissime donne parole sozze e che un’altra fiata la si riguardasse.
Ma Alteria, arrossita alquanto, si levò da sedere: e voltato il caro viso verso la Signora, disse: Signora mia, l’enimma per me proposto non è disonesto sì come voi lo riputate; e di ciò renderà vera testimonianza questa nostra piacevole compagnia, quando ella avrà intesa l’oggetto. Imperciocchè il nostro enimma altro non dinota, se non il falcone, che è uccello gentile ed ardito, e viene volentieri al falconiere. Egli porta le sue brachette, e gli sonagli a’ piedi; ed a chiunque si diletta d’uccellare, dona piacere e solazzo. Udita la vera dichiarazione dell’arguto enimma per lo adietro disonesto riputato, tutti ad una voce lo com-mendorono. E la Signora, posta giù ogni sinistra oppenione che di Alteria aveva, voltò il viso verso Lauretta, e fecele motto che a sè venisse; la quale, ubbidiente, a lei se ne gì. E perchè a lei toccava la volta del favoleggiare, dissele: Non già che io faccia poca stima di te, nè che io ti reputi inferiore alle altre compagne nel dire; ma acciò che noi pigliamo maggior diletto e trastullo, io questa sera voglio che per ora tu ponghi silenzio alla tua bocca, porgendo le orecchie all’altrui novellare. Rispose Lauretta: Ogni vostra parola, Signora mia, m’è espresso comandamento; e fatta una riverenza, al luogo suo se n’andò a sedere. Indi la Signora guattò nel viso del Molino, e con mano li fece segno che a sè venisse; ed egli subito si levò da sedere ed a lei riverentemente se ne andò. A cui disse la Signora: Signor Antonio, questa ultima sera della settimana è molto priviligiata, ed è lecito a ciascuno dire ciò che le piace; laonde per contentamento nostro e di questa orrevole compagnia, vorressimo che voi ne raccontaste una favola alla bergamasca con quel buon modo e con quella buona grazia, che voi siete solito di fare. Il che se voi, come io spero, farete, noi tutti vi saremo perpetualmente tenuti. Il Molino, intesa la proposta, prima stette alquanto sopra di sè; dopo, vedendo non poter schifare tal scoglio, disse: Signora, a voi sta il comandare, ed a noi l’ubidire; ma non aspettate da noi cosa che sia di molto piacere, perciò che queste nostre onorate damigelle sono sì valorosamente riuscite nel raccontare le loro favole, che nulla o poco a quelle si potrebbe aggiungere. Io, tal qual io sono, mi sforzerò, non come voi desiderate ed è il voler mio, ma secondo le deboli mie forze, di sodisfarvi a pieno; — e ritornatosi al suo luogo a sedere, in tal maniera alla sua favola diede principio.