Le ore inutili/La via ritrovata
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LA VIA RITROVATA.
— Aprite le finestre, — ordinò il medico con voce sommessa ma imperiosa alla cameriera in cuffietta bianca che pregava piangendo, inutile e desolata presso il letto della sua signora.
Entrò dal giardino antico un’ondata di luce verde, una ventata di profumi agresti, uno stridìo acuto di rondini e il viso spento dell’inferma vi si volse avido, le labbra cianotiche si aprirono a respirare un alito più puro di vita, quasi a rinfrescarne le membra dolenti. Quindi sorrisero stancamente al dottore accennando a parlare. Il medico si curvò, raccolse nell’orecchio le parole affaticate:
— Grazie, dottore, sto meglio ora. Ma che crisi terribile, Dio mio! Un’altra come questa e me ne vado.
Ella agitò sui cuscini la testa grigia, il volto esangue grasso e floscio dove le sopracciglia ancora nere nella gran fronte scoperta segnavano due vasti archi pieni d’alterigia e di volontà.
— Si calmi, marchesa, — l’esortò il medico prendendole il polso inerte sulla coperta di broccato azzurro e ne contò con volto assorto i battiti scuotendo il capo dall’alto al basso in segno di sodisfatta approvazione.
Ma quando fu per andarsene dopo aver dato alla cameriera gli ultimi ordini, l’inferma gli afferrò la mano, lo trattenne presso di sè, gli disse con voce supplichevole:
— Rimanga ancora un poco, dottore. Vorrei parlarle.
Per un caso singolare ma non infrequente agli esseri già votati ad una vicina morte, la marchesa Saveria Vallarsi, la superba gentildonna che si vantava di non aver mai pregato nessuno, tranne Dio, si piegava ora a implorare consiglio ed aiuto da quel giovine medico quasi ignoto che il caso le aveva mandato a soccorrerla durante una crisi del suo male incurabile in uno dei primi giorni di villeggiatura.
Egli sedette grave a piè del letto mentre la cameriera usciva, congedata da un cenno della signora.
— Io ho bisogno di conoscere la verità sul conto mio, dottore. Sono vecchia ormai e la morte non mi fa più paura.
Donna Saveria pronunciò queste parole quasi duramente fissando il giovine scienziato coi suoi occhi acuti sotto il vasto arco nero dei sopraccigli corrugati. Pareva voler infondere nell’altro la convinzione che di nessuna menzogna e di nessuna pietà occorreva mascherare la risposta, qualunque essa fosse stata.
— Marchesa, — rispose il medico con la medesima fermezza di volto e di espressione — la scienza non può dare quasi mai un esatto responso, solo può con una certa sicurezza prevedere l’avvenire.
— L’avvenire? — ripetè donna Saveria con un sorriso d’ironica amarezza. — Esiste ancora per me un avvenire?
— Tutto è relativo, — osservò il giovine stringendosi nelle spalle. — Le forze da opporre al male sono ormai molto depresse e poichè ella vuole assolutamente sapere....
Egli sostò, colpito dalla gravità della sua stessa voce che aveva la cruda freddezza d’una sentenza. Ma l’inferma lo incitò con lo sguardo, con l’ansia interrogativa di tutto il volto, con le parole impazienti: — Dica, dica, dottore.
— Ebbene, — egli proseguì, — per qualche settimana, per un mese al più si potrà lottare contro il morbo e illudersi forse di averlo vinto o almeno domato. Ma sarà una speranza fittizia.
— E bisognerà cedere, — soggiunse donna Saveria scrutando il volto del medico.
Egli sollevò le spalle con gli occhi all’alto nell’atteggiamento della rassegnazione mentre ella proseguiva:
— È questo che m’occorreva conoscere. Un mese di vita, il tempo per salutare i figli di mio figlio che sono lontani, dispersi pel mondo. Per uno di essi, per il più giovane, mi sarà necessario il suo aiuto, dottore.
Ella incrociò sulla coperta le dita pallide e grasse e sollevò verso di lui le mani congiunte, supplichevoli:
— Bisognerà che lei scriva annunziando la mia non lontana fine e chiedendo nel nome di una moribonda la grazia di lasciarmelo rivedere prima di chiudere gli occhi per sempre. Senza di questo non potrò andarmene in pace, nè ottenere forse il riposo nell’al di là.
La sua voce prima implorante s’era fatta fioca e quasi incomprensibile come s’ella parlasse ormai per sè stessa, per il bisogno di esprimere un pensiero lungamente chiuso nell’anima tormentata. Ma il medico, chino su di lei, la ricondusse al presente con un’altra domanda:
— E dove si trova questo suo nipote?
— È frate, dottore; è frate della più rigida clausura, — rispose la marchesa coprendosi il volto con le palme, con un lungo sospiro doloroso.
Ella trasse a fatica di sotto il guanciale un libriccino di pelle nera, ne tolse un foglietto ripiegato e lo porse al giovine:
— Ecco l’indirizzo al quale deve scrivere. Questo è il nome del padre superiore, questo è il convento. Mio nipote si chiama padre Jacopo Vallarsi. E Dio voglia ch’io lo riveda prima di morire e ch’io ottenga il suo perdono.
Il medico le volse un lungo sguardo indagatore, ma non manifestò alcuna curiosità e racchiuse il biglietto nel suo portafogli. Quindi tese all’inferma la sua mano ch’ella afferrò con gli occhi pieni di lagrime e strinse convulsamente.
— Lei è giovane e serio come il mio Jacopo e forse per questo mi ispira tanta fiducia. Forse anche un poco somiglia a lui prima che vestisse l’abito, quell’abito ch’io stessa l’ho costretto a indossare e che fu il castigo di questi ultimi anni della mia vita.
Ella sentiva il suo cuore traboccare nel bisogno di una espansione, di una confidenza, forse di una confessione che la sollevasse da un lungo rimpianto e da un cocente rimorso, ora fatti più acuti e più intollerabili della certezza della morte non lontana. E le pareva che accusandosi a quel giovine taciturno che l’ascoltava con una impassibile fermezza di giudice già incominciasse la sua espiazione e già l’addolcisse la speranza del perdono.
— M’erano rimasti due giovinetti orfani da allevare e da educare alla morte del mio unico figlio ed io m’ero proposta di seguire le tradizioni della mia famiglia e di destinare il maggiore alla diplomazia, il minore al sacerdozio.
Il dottore risedutosi a piè del letto ascoltava senza guardare l’inferma, col gomito appoggiato alla sponda e la fronte nella palma in un’attitudine raccolta di confessore.
— Il primo, quieto e docile, s’avviò tranquillamente ai suoi studi, conseguì i suoi diplomi, superò i suoi concorsi ed ora è un ottimo diplomatico e un padre esemplare, lieto della sua bella carriera e della sua florida famiglia. Ma Jacopo, il minore, di parecchi anni più giovane del fratello, non seguì così docilmente la via ch’io gli avevo tracciata. D’intelligenza vivacissima e di modi pronti, si sentì subito inceppato e chiuso nelle severe costrizioni ecclesiastiche e morse lungamente il freno prima di sottomettersi alla mia volontà. Fra i miei ricordi più amari mi torna sovente al pensiero quello d’una sua crisi terribile di lacrime e di disperazione prima di pronunciare i voti che lo legavano alla Chiesa. Rammento ch’egli si attaccò alle mie ginocchia implorando almeno una dilazione di qualche anno o di qualche mese, affinchè la sua vocazione si chiarisse e s’affermasse. Ma io sapevo che questa attesa lo avrebbe distolto da ciò che reputavo ormai il suo preciso dovere dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini e fui inflessibile. Jacopo obbedì, entrò nei sacri ordini, ma non volle essere un prete secolare, un predicatore alla moda, un vescovo decorativo. Si chiuse in un convento e fu un oscuro frate tutto dedito a Dio e alla pietà. Egli ha ora quasi ventisette anni; da cinque anni non lo rivedo, non ho notizia di lui, non conosco che il luogo della sua residenza. Ignoro la vita del suo spirito, ignoro se le sue ribellioni si siano placate nella rinunzia e nella preghiera, ma so di essere stata in grave colpa dinanzi a lui e temo di averne fatto un infelice, forse un disperato.
La marchesa Saveria si terse le lagrime che durante il racconto erano sgorgate senza posa dai suoi occhi e pronunciò con la voce rotta e quasi gemente la sua accusa. Quando tacque il medico s’alzò, disse risoluto:
— Scriverò stasera stessa. Se le regole del convento lo permettono, ella rivedrà certo suo nipote.
— Nessuna grazia si rifiuta a un morente — mormorò l’inferma con un mesto sorriso, e porse la mano al dottore con uno sguardo di gratitudine.
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Scese la notte sull’antica villa e vi stese il suo velo d’ombra e di silenzio. L’ammalata volle che la finestra affacciata sul giardino rimanesse aperta, per poter contemplare dal suo letto un lembo di cielo tutto fiorito di stelle e mandare lassù all’invisibile Dio raggiante negli astri muti le sue orazioni di rammarico e di speranza.
Sembrava pure pregare con un lungo trillo d’umiltà serena il coro ampio dei grilli nascosti nel buio della campagna dormente, e pareva alla vecchia anima afflitta che i piccoli coristi implorassero, col loro canto monotono, pace per il lontano e pietà per lei.
A un tratto il cane di guardia, vagante per il giardino, incominciò a mugolare sordamente. Si sentì l’ansare affrettato della sua corsa verso il cancello e la cadenza del suo galoppo sulla ghiaia scricchiolante dei viali.
La marchesa Saveria, che teneva chiusi gli occhi in un leggero assopimento, sobbalzò destandosi, all’abbaiare furioso del cane; chiamò la cameriera, che dormiva tutta vestita su un piccolo divano dietro la porta e le ordinò con voce agitata:
— Va’ a vedere; c’è qualcuno. Qualcuno è entrato nel giardino. Scendi subito.
— Ma no, signora, — mormorò la donna, ancora assonnata, reprimendo uno sbadiglio. — Il cane abbaia a tutti i passanti. Ecco. Ha già cessato.
Ma le rispose un ululato più forte e l’inferma si agitò più affannata nel suo letto, mentre l’indolente cameriera si sporgeva dalla finestra.
— Ecco, vedo luce nel casino del giardiniere. Devono aver picchiato alla sua porta e chiamato qualcuno. Adesso sapremo di che si tratta.
— Scimunita! — le gridò la marchesa, tremante d’ira. — Torna ad accucciarti là dietro e dormi, poichè non sai far altro.
Ma essa discese ad aprire la porticina al giardiniere, che la chiamava sommessamente dal basso e attutiva la voce e i passi per non impressionare la padrona. Tuttavia questa, con l’udito finissimo dei malati, l’intese e gli impose di salire, di portare egli stesso l’ambasciata.
— Ho un biglietto per lei, signora marchesa. Mi è stato consegnato ora attraverso il cancello da un giovine che non conosco, alto, pallido, avvolto in un mantello.
Ella si sollevò sui guanciali, afferrò il suo occhialino cerchiato d’oro e decifrò a fatica le poche parole a lapis, le quali dicevano laconicamente: “Non spaventarti, cara nonna. Sono Jacopo, e approfitto del solo momento che ho per darti un saluto„.
Donna Saveria incominciò a tremare per tutte le membra ed a battere i denti nel volto atterrito come se le si fosse annunziato un fantasma. Non poteva parlare, ma abbassò ripetutamente il capo rivolta al giardiniere per significargli d’introdurre il notturno visitatore, quindi attese immobile sui guanciali volgendo alla porta il volto più pallido e più floscio dove gli archi neri dei sopraccigli s’appuntivano verso la fronte in un’ansietà paurosa e interrogativa al tempo stesso.
E suo nipote, il padre Jacopo Vallarsi, apparve. Aveva sulle spalle un largo mantello grigio e non portava cappello. Sorrideva con la testa eretta avanzando verso l’inferma e il suo passo non più ostacolato dalla tonaca sembrava ancora un poco esitante, quasi sorpreso della propria libertà.
Come fu presso il letto, s’inginocchiò e baciò la mano di sua nonna con la stessa riverenza di quando era fanciullo. In quell’atto il mantello scivolò dalle sue spalle e dinanzi agli occhi sbalorditi della marchesa Saveria quell’uomo inginocchiato che le baciava la mano, Jacopo, il monaco della più rigida clausura, apparve vestito d’una divisa d’ufficiale segnato al braccio di una rossa croce.
— Benedicimi, nonna, affinchè possa compiere il mio dovere sui campi di battaglia meglio di quanto non l’abbia fatto negli orti del Signore.
La mano grassa ed esangue della marchesa si posò sul capo del giovine mentre il suo spirito rivolgeva a Dio una fervorosa invocazione.
— Mi hanno chiamato ed eccomi qui, pronto a tutto. Soccorrerò i feriti, benedirò i morenti, affronterò io stesso la morte, — diceva Jacopo con un sorriso luminoso che sua nonna non gli conosceva, ritto accanto al letto con le mani incrociate sull’elsa della sciabola. — E forse, nonna, — soggiunse fissandola in volto con uno sguardo eloquente e con un lungo sospiro represso, — forse, nonna, troverò finalmente la mia via.
Allora la marchesa Saveria ebbe per la prima volta nella sua lunga vita che stava per tramontare un gesto spontaneo d’umiltà, di rimorso e d’amore.
Tese a suo nipote le braccia e stringendolo a sè, con la sua vecchia testa contro la giovine spalla di Jacopo, lo supplicò piangendo di perdonarla.