Pagina:Odi di Pindaro (Romagnoli) I.djvu/116





Questa ode, come la Pitia VI, la piú antica delle siciliane, è composta per una vittoria di Senocrate; ma dopo la morte di lui; ed è anch’essa indirizzata all’amico diletto Trasibulo.

Dal contenuto parrebbe probabile che fosse morto anche Terone, e che le ultime tenebre si addensassero oramai sulle case degli Emmenidi. Ai tempi dell’opulenza erano state aperte a tutti, le mense sempre imbandite, e i poeti gareggiavano nell’esaltare i signori. Adesso si sono tutti allontanati. Non si allontana Pindaro; ma sulla tomba dell’amico defunto scioglie un affettuoso epicedio, che non è fra le piú belle cose del poeta, ma fra le piú commoventi, e che piú dicono la nobiltà dell’animo suo.

Un tempo — dice Pindaro — i poeti cantavano l’elogio ai giovinetti per la loro bellezza, per i loro meriti: adesso invece si canta per chi ha quattrini. Sei savio e intendi meglio ch’io non ragioni (1-13).

Ma io canterò l’ultima vittoria che tuo padre Senocrate riportò sull’Istmo. L’ultima, non l’unica. Aveva anche vinto nei giuochi di Crisa, e in Atene, dove non ebbe a lagnarsi dell’auriga Nicomaco, e ad Olimpia, dove salutarono festosi la sua vittoria gli araldi Elei, che erano stati largamente ospitati da lui ad Agrigento. E in Olimpia i figli di Enesidamo,